Nel trentacinquesimo genetliaco del poeta Dino Campana, giovedì 20 agosto, è stata presentata a Marradi la ristampa anastatica del manoscritto “Il più lungo giorno”. Erano presenti, oltre alla presidente del Centro, Mirna Gentilini, il vicepresidente, Rodolfo Ridolfi, e il prof. Stefano Giovannuzzi dell’Università di Perugia.
La prof.ssa Gentilini, ha ricordato l’emozione provata nel 1973 al convegno “Campana Oggi” - fondamentale per subire il “contagio” campaniano - promosso dal Gabinetto Viesseux di Firenze. Il convegno fu organizzato coi massimi studiosi dopo che era stato reso pubblico il ritrovamento del manoscritto fra le carte di Soffici con un articolo di Mario Luzi sul “Corriere della Sera” del 17 giugno 1971.
Gentilini ha ricordato le speranze che, anche con l’allora presidente Rodolfo Ridolfi, si nutrivano sulla possibilità che il manoscritto fosse donato a Marradi, sulla base delle affermazioni delle stesse Elda e Lilia, figlie di Manlio Campana, fratello di Dino. Il manoscritto fece un breve ritorno a Marradi nel 1985 quando fu esposto nella sala del Consiglio comunale; ma nel 2004 fu messo all’asta e, comprato dall’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, depositato alla Biblioteca Marucelliana.
Dopo il saluto del sindaco Triberti che si è complimentato ancor una volta con questa iniziativa, Ridolfi ha ripercorso i meriti del Centro Studi in tanti anni di attività, la sua centralità nel promuovere iniziative e incontri; ha sottolineato inoltre come per Dino fu comunque importante il ruolo di Soffici.
Questa edizione in 500 esemplari de “Il più lungo giorno” a cura di Mirna Gentilini, segue quella già da tempo esaurita del 2001.
Come sappiamo il manoscritto nel dicembre del 1913 fu consegnato dal poeta a Papini e Soffici. Gentilini ha ricordato che il testo non era su un misero “taccuino da sensale” - come affermò Soffici, ma era scritto su un pregiato supporto settecentesco rilegato e copiato all’inizio in bella grafia.
Nel suo intervento il prof. Stefano Giovannuzzi ha evidenziato come già il progetto di tripartizione del libro fosse ben chiaro nella mente di Dino che inserisce all’inizio dell’opera, quasi a mo’ di presentazione, un testo di Soffici, quale condivisione dell’ideale valore salvifico dell’arte, a cui segue la bella copia de La Notte testo già pienamente maturo.
Ma già nella sezione centrale de La Verna Dino tenta la riorganizzazione in una forma diaristica dei suoi appunti sparsi sul paesaggio, sulla falsariga del “Diario di bordo” sofficiano. Il soggetto stesso è in rapporto al viaggio, anche se poco riverente, di Ardengo a la Verna, meta comune di tanti intellettuali del tempo. Tutto questo testimonia la fiducia di Campana di inserirsi nella compagine lacerbiana quale portabandiera di una nuova poesia.
Ne La Verna infatti risulta evidente una grafia più ansiosa rispetto a La Notte con spostamenti di alcuni brani segnati a lato da numeri: Dino sta elaborando una continuità narrativa ancora tutta da conquistare.
Sono evidenti le sospensioni contrassegnate da una serie di punti che Dino progetta di completare. Così se La Notte testimonia un lavoro di copiatura di un testo già definitivo, ancora più in gestazione è l’ulteriore terza sezione, la più diversa dall’edizione finale dei C.O.
Presumibilmente la redazione del testo è messa insieme da Dino fra il settembre e il dicembre del 1913, nella speranza di una pubblicazione con Lacerba, nel clima positivo ed eroicamente nietzschiano di una sua parabola verso la luce già presente nel titolo.
Quanto diversa l’elaborazione finale dei C.O.! Il titolo con Orfeo è già tragico, così lo è “la tragedia dell’ultimo tedesco in Italia”, tragico il colophon con l’immagine “del sangue del ragazzo”; tragici i destini del Russo e di Regolo, aggiunti solo nell’edizione marradese. E se la luce mediterranea dà uno sprazzo di consolazione, lo dà proprio in contrapposizione all’ineluttabilità vincente della storia segnata dal dolore.
Così la versione de La Verna contrasta per misticismo con la grottesca scampagnata sofficiana.
Dino tuttavia non manca di aggiungere una citazione da Soffici sul “paesaggio cubistico”, inserendo anche un bel pezzo pittorico che mancava nella prima redazione.
Tralascia invece la parte del Conte Lando e della corona di diamanti donata dalla regina Matilde a Campigno forse perché notazioni troppo locali che non si sarebbero comprese.
“Il più lungo giorno” è un libro compiuto ed un progetto al tempo stesso, afferma Giovannuzzi, che va letto per quello che di sé dice.
Un abito potremo dire, di cui Campana si veste, ma che diventa presto corto per quella sua anima che nel dolore raggiunge la piena maturità.
Ogni volta che torno da Marradi mi capita di sentire che fra quei monti c’è qualcosa che ancora spero di incontrare; qualcosa fuori da ogni acculturamento.
Dino ci aspetta, ci aspetta ancora come singoli, come uomini del divenire; in fuga, come la sua poesia, che continuamente si trasforma, affinché non pensiamo di Avere o di Essere rigide Verità; in fuga non da qualcosa, ma verso qualcosa; costantemente flusso, continuamente sorgenti, dove ogni attimo presente è rinnovamento del passato e annuncio di un desiderato futuro che continuamente si invera.
E mi parla, nel venire, fra le ombre dei tornanti e lo trovo compagno, nel ritorno, al passo della Colla a vegliar le stelle vivide nei pelaghi del cielo.
“Mi manca l’ultima parola” sembra dirmi Dino, come Ferruccio Busoni nel suo “Mago possente”; quella parola che attendo ancora, quella che chiude un accordo, quella che apre una visione, perché ci sono parole che dentro hanno chiavi per aprire l’anima: non solo la nostra, ma l’anima delle cose, dei sassi, dell’acqua, del vento, degli alberi. E qui non si tratta di rifugi carducciani di ninfe che da essi usciron fuori, né di attese di Pan dall’erme alture; non si tratta di consolanti malinconie mitiche: si tratta di consonanza vibrante, di incarnazione della parola, della sua resurrezione sul foglio bianco, della sua ascensione nello spirito che la assume leggendola. La parola che non evoca il mito, ma che è mito essa stessa, che è più estesa del suo significato.
Quelle parole le potete vedere vergate da Dino in questa bella edizione del Centro Studi, dedicata allo studioso marradese recentemente scomparso Franco Scalini, e accompagnata dai contributi di Stefano Giovannuzzi, Mirna Gentilini e Rodolfo Ridolfi.
Silvano Salvadori 21-8-20