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Monticchiello: Dove gli abitanti diventano attori

Un’intera comunità che ha salvato un paese con il teatro

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Montichiello Montichiello © Tommaso Turci
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Un gruzzolo di edifici in pietra, appollaiati su un colle che si affaccia sulle splendide terre cangianti della Val d’Orcia senese. Siamo a Monticchiello, un borgo che ci tramanda una storia traboccante di speranza e che è qualcosa che scavalca la semplice tradizione. Da qui si scorge Pienza, la città ideale del rinascimento voluta da Papa Pio II in persona. Ma niente ornamenti, perfette geometrie e scorribande turistiche; a Monticchiello l’aroma è tutto medievale; con le sue pietre ocra, le improvvise piazzette e i ruderi della rocca a legittimare il tutto.
Il rinascimento che ha vissuto questo borgo ha però tutt’altra natura e si incarna nell’urgenza espressiva di un paese che si è aggrappato alla vita per non scomparire. Ed ha trasformato la quotidianità di un intera comunità in una forma di teatro che non ha precedenti nel mondo. Proprio così, un teatro di piazza veramente unico, dove gli abitanti del borgo vestono semplicemente e spudoratamente i panni di loro stessi.
Per capire meglio questa storia, custodita quasi come un segreto tra i terreni argillosi della Val d’Orcia, occorre riavvolgere il nastro agli anni ‘60 del secolo scorso: il paese, che fino ad allora aveva vissuto in regime di mezzadria, si trovava a fronteggiare le ripercussioni del boom economico e sembrava destinato a uno spopolamento inesorabile. Ma per alcuni abitanti questa luce non doveva spegnersi: fu così che i contadini decisero di lanciarsi in iniziative che a quel tempo parevano viaggiare sul filo della follia. Innanzitutto riscattarono, con un’azione congiunta, i terreni agricoli che per secoli furono di proprietà dei padroni.
Ma questo non bastava per frenare l’inerzia da spopolamento: così dal 1967 si ebbe l’idea di allestire un teatro di piazza dove poter dare sfogo alle problematiche sociali che attanagliavano i paesani, dove dibattere sui problemi e provare a cercare soluzioni, dove poter far detonare per la valle la voce di Monticchiello e della sua storia contadina che no, non poteva trasformarsi in ricordo. Niente maschere, copioni ricercati o luci pirotecniche: è la vita degli stessi abitanti a essere sviscerata e ad esserci sbattuta in faccia. Ma questo teatro non inscena esistenze; piuttosto sono le vite stesse a costruirsi a mani nude il palcoscenico e farsi teatro. Un contenitore sperimentale, artistico e sociale al tempo stesso, privo di orpelli, dove si riflette e si dibatte sugli spunti forniti dai temi dell’attualità, nel tentativo di disegnare ipotesi di futuro. Ecco cos’è il “Teatro povero di Monticchiello”.

Quest’urlo collettivo riuscì a risuonare ed attecchire, dato che tutt’oggi, a quasi 60 anni dalla prima edizione, i Monticchiellesi continuano a mettere in piazza nient’altro che loro stessi, in un genere che ha un nome che nasce e si esaurisce su questo poggio: “Autodramma”.
Un progetto che ogni anno muove i primi passi nei rigidi inverni, quando gli abitanti in riunione sviluppano quel tema, quelle battute che poi verranno portate sul palco nella stagione estiva. Vecchi, adulti, bambini e animali; chiunque abbia voglia di mettersi in gioco può muoversi nel palcoscenico di piazza. Attorno a questi spettacoli è poi nata, nel 1980, la Cooperativa di comunità che al giorno d’oggi è il cuore pulsante di Monticchiello.

Come ci spiega Fabio Rossi, cooperatore della comunità del Teatro povero “Il 1980 fu l’anno della definitiva “indipendenza” per il paese: gli abitanti costituendosi in una cooperativa riscattarono il granaio della fattoria, che altro non era che il luogo dove tutta la fatica e il sudore dei contadini veniva riversato. Ed il riscatto per i paesani ebbe un valore doppio, dato che quel granaio verrà utilizzato da lì in avanti per attività culturali”. Un enorme linguaccia srotolata in faccia ai padroni di un tempo, un’emancipazione che profuma orgogliosamente di rivalsa. Tutti i servizi forniti dalla cooperativa, dalle taverne all’emporio, dalle ciclofficine al museo, sono le impalcature che permettono di tenere in piedi un palcoscenico che si costruisce giorno dopo giorno.
Io sono arrivato venti anni fa e non me ne sono più andato. – ci dice Fabio- In questo periodo mi sono reso utile alla comunità in diversi modi. Siamo una porta aperta ed ho potuto notare come il paese negli anni si stia ringiovanendo. Ma qui tutto si trasforma lentamente perché ogni cosa va condivisa”.

E l’emozione dello spettacolo è una cosa che merita solo di essere vissuta: niente microfoni, ma solo l’eco delle mura della piazza ad abbracciare attori e spettatori. Così, mentre riconosci sul palco la ragazza che precedentemente ti ha servito i pici alla taverna e il signore che ti ha aperto il museo, hai la sensazione che ieri, oggi e domani viaggino a braccetto, radici ben piantate nel passato ma rami protesi e ricettivi verso i tempi che verranno. E sorridi, rifletti, e ti chiedi come sia possibile che questo microcosmo sia rimasto negli anni e nelle generazioni lontano da tutto il frastuono che ci ronza intorno, a tentare di aprire un varco dal quale poter fare luce verso un futuro incerto e imperscrutabile. E, se ci fai caso, ti accarezza una sensazione che mica è facile togliersi di dosso. Perché anche le emozioni, qui, sono condivise.

 

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