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Sull'Arca dei Minatori. Viaggio nei cantieri della Variante

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Sull'Arca dei Minatori. Viaggio nei cantieri della Variante Sull'Arca dei Minatori. Viaggio nei cantieri della Variante © n.c.
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Pubblichiamo questo appassionante articolo della scrittrice barberinese Simona Baldanzi, apparso sulla rivista 'Lavoro & Sindacato'. Uno sguardo sulle condizioni di lavoro e l'integrazione dei lavoratori della Variante di Valico:

Alla fermata dell’autobus un uomo mi guarda. Poi china il capo e mi domanda: “Non mi riconosci?” Imbarazzata stringo le spalle. “Sono di Baldassini, ricordi?” BTP, Baldassini Tognozzi & Pontello, una delle ditte impegnate nei lotti della Variante di Valico su Barberino di Mugello. “Sì, come va?” chiedo. “Non tanto bene, sto andando in Germania. È morta mia mamma”.

 

Emigrato con la famiglia nella Schwarzwald  per via del lavoro è tornato nuovamente in Italia, a seguito delle grandi opere, temporaneamente abitante nel Mugello. Sento che ha difficoltà a definire qualcosa come “casa”. Lui costruisce le opere che ci promettono di andare più veloci, ma intanto deve prendere un autobus per Firenze, poi una serie di treni per raggiungere un paese tedesco. Non chiedo neanche il tempo che gli occorre, ci sediamo sull’autobus in silenzio e aspettiamo di vedere dai finestrini la città, che comparirà solo dopo un’ora.

L’operaio non mi ha ricordato il suo nome. Lo sa che lì, in Mugello e quindi anche per me che ci vivo, lui rimarrà un’identità sospesa, è solo uno che lavora per BTP. Scadrà e scomparirà come il suo contratto.

Pochi mesi prima dell’incontro con questo lavoratore, ero tornata nei cantieri fra l’estate del 2008 e quella del 2009, dopo la mia prima ricerca svolta nel 2001-2002 sui lavoratori impegnati nella costruzione dell’Alta Velocità in Mugello, le colline sopra Firenze a ridosso degli Appennini. Questa volta ho seguito un progetto di ricerca condotto dall’Asl 10 di Firenze sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, sui disturbi psicofisici del lavoro a turni, sul mobbing, sull’abuso di sostanze, sui vari disagi dei lavoratori impegnati a realizzare la Variante di Valico, il tratto autostradale che fora l’Appennino Toscoemiliano.

Ho aiutato i lavoratori a compilare i questionari sui tavoli sghembi di alcune salette a ridosso delle mense, dentro i campi base. Le tute arancioni con le strisce catarinfrangenti ero abituata a vederle, ci avevo già avuto a che fare, eppure ogni volta hanno quel modo di guardarti con una schiettezza che spiazza e toglie il fiato. E come al solito c’è da abbattere un po’ di pregiudizi, di diffidenza, di dialetti marcati da decifrare, di timori legati al fatto di esprimere un’opinione anche se anonima. Alcuni lavoratori dicono che senza occhiali non riescono a leggere, ma capisco che per alcuni di loro è una scusa per nascondere un imbarazzo legato a difficoltà di lettura e comprensione. Leggo domande e risposte, spiego seduta fra di loro. “Un questionario a cosa può servire? Conta davvero la mia opinione?” Si sente l’obbligo di compilare il questionario, sono pochi quelli interessati alle conseguenze dei turni, alle sopraffazioni dei capi, ai disagi psico-sociali collegati all’isolamento nei campi lontani da casa, dalle famiglie e dai paesi di origine.

Il campo base della ditta Toto si trova dentro ad un cantiere. Ci vivono e lavorano circa 190 persone. Vedi una bocca gigante scavata nella collina e appena sotto le casette bianche della mensa, degli uffici, degli alloggi mentre intorno girano camion, furgoni, macchinari. Quando ci sono stata la prima volta ho faticato a crederlo: come è possibile permettere che i lavoratori mangino, dormano, vivano sotto l’imbocco della galleria 24 ore su 24 nella polvere, nel rumore, nel lavoro? Ho avuto subito la percezione che fosse peggio dei cantieri dell’Alta Velocità: se credevo che i cantieri della Tav fossero il punto di partenza per migliorare, mi ero sbagliata.

In questo campo base abbracciato al cantiere vivevano i tre lavoratori che hanno perso la vita il 2 ottobre del 2008 precipitando dal pilone del viadotto che stavano costruendo. Con oltre 190 lavoratori, fino all’incidente mortale, non vi era nessun rappresentate dei lavoratori alla sicurezza. Non vi era traccia nell’organigramma aziendale di un gruppo operativo sulla sicurezza, ma diverse responsabilità concentrate in una sola figura, mostrando tutta la limitata capacità di controllo e quindi l’inefficienza sulla sicurezza.

La piattaforma dove si trovavano è ceduta per via di un bullone, ma di più non si sa poiché sono ancora in corso le indagini. I lavoratori erano due calabresi di 26 e 49 anni e un napoletano di 45. A Barberino di Mugello, luogo dell’infortunio mortale, c’è stato il lutto, ma in realtà è calata una fredda rassegnazione. Non si sono avvertiti come lavoratori di queste parti, non li conosceva nessuno, forse si vedevano passare nei furgoni, in piazza per un caffè, con quel loro accento di chi viene da fuori, solo per qualche minuto. Dopo la grande opera della Tav, che aveva fallito l’integrazione con l’osservatorio sociale mai concretamente attivato, il Mugello non ha imparato nulla per accoglierli, per andare a vedere chi sono e di cosa hanno bisogno. Un lavoratore mi ha ringraziato tre volte perché gli ho dato indicazioni per dove andare in piscina, dopo il turno.

Le ditte che hanno in appalto i lavori della Variante di Valico nel comune di Barberino di Mugello sono BTP, Todini e Toto. Per l’Alta velocità il committente era unico, il CAVET (Consorzio Alta Velocità Emilia Toscana). Sebbene per entrambe le opere ci sia una miriade di subappalti, è chiaro che la frammentazione dei lavori in lotti e di conseguenza l’assegnazione a più ditte, rende più difficile una gestione unitaria della sicurezza: occorrono più controlli, si ha a che fare con più responsabili e con organizzazioni diverse.

La Variante di Valico è un’opera ritenuta ormai necessaria da tutti, non ha opposizione dalle forze politiche, non c’è conflitto intorno al progetto per cui non ci sono riflettori accesi, discussioni, informazione. Sull’Alta velocità soprattutto all’inizio dei lavori non era così. Difatti, col proseguire dell’opera e la perdita di attenzione, i turni sono peggiorati, la frammentazione del lavoro in subappalti cresciuta e le morti sul lavoro pure.

I lavoratori dell’Alta Velocità facevano turni che si riteneva durissimi: il cosiddetto quarto turno con 6 giorni di lavoro e uno di riposo, 6 giorni di lavoro e due di riposo, 6 giorni di lavoro e tre di riposo, facendo così 48 ore di fila a settimana in galleria. Già dal primo giorno di distribuzione dei questionari sulla variante di valico, ho capito che i turni qua erano ancora più duri: i lavoratori mi hanno parlato di 11, 12, 13 ore nei cantieri come orari “normali”.

Il quarto turno è diventato un 6+1 (giorno di riposo), 6+1,6+4 per concentrare i giorni liberi. Alle 14 del pomeriggio a mensa aspettavo le squadre dei turnisti che dovevano smontare, ma ne ho viste arrivare pochissime. Nel questionario si chiede quante ore di lavoro fai mediamente al mese di straordinari. Alcuni lavoratori mi guardavano ridendo: “la verità?” Li esortavo. Qualcuno però continuava a protestare “Perché chiedete degli straordinari? Gli straordinari sono una cosa nostra, che c’entra con la sicurezza?” O ancora “Devi lavorare, se io riempio il questionario e dico la verità, poi che mi succede? Che la mia famiglia poi non mangia?” Però in tanti mi hanno scritto 40, 50, 60 ore. Dai dati dei questionari il lavoro straordinario è mediamente di 34 ore mensili.

Qualcuno mi ha confessato che oltre alla ditta dell’appalto lavora a nero anche per la ditta in subappalto e allora la lunghezza della giornata non sai neanche misurarla. Si accumulano le ore perché i soldi delle paghe sono sempre meno e perché si risparmiano le ore per tornare a casa. Il 28,6% dei lavoratori provengono dalla Calabria, il 15,8% dall’Abruzzo, il 10,3% dalla Campania, l’8,8% dalla Basilicata, una fotografia già vista nei casi delle grandi opere italiane.

Rispetto ai campi base della TAV, per la VAV (variante di valico) le camere per gli operai sono singole, ma non c’è più l’infermeria che i lavoratori comunque consideravano importante non solo come presidio per la sicurezza, ma come punto di riferimento, ad esempio per fornirsi di qualche farmaco comune. L’infermiera che spesso è con me per la distribuzione dei questionari e che ha avuto esperienza nelle infermerie dei campi base della TAV, mi dice che i presidi infermieristici servivano ai lavoratori come un punto di riferimento per parlare con gli operatori sanitari dei loro problemi, non solo collegati alla salute.

Al campo base di BTP gli alloggi sono su doppio piano, sono prefabbricati e quindi i rumori passano molto bene da un piano all’altro. Questo crea qualche difficoltà visto che i lavoratori hanno turni e dormono a orari diversi. Ci vivono oltre 200 lavoratori e in molti protestano perché c’è solo una lavatrice per tutti. “Veniamo da paesi che di lavoro non ce n’è, almeno che non lavori per la mafia, quindi ci dobbiamo lamentare? Questa è l’Italia” mi dice un lavoratore alzando le spalle.  Un altro mi si avvicina, la pancia gli preme sulla tuta. “Sai di dove sono io?” Altri lavoratori intorno sghignazzano.“Sicuramente dalle mie parti non ci sei stata!” Chiedo il motivo e lui risponde: “Sono di Casal di Principe, capisci?” e poi aggiunge “mio figlio s’è fatto prete e io sto qua. Non mi piace, ma c’è di peggio”. Un altro dietro di lui appoggiato alla finestra della stanza prefabbricata aggiunge in accento campano “A casa ho lasciato la mia famiglia. Non ho un figlio, ho una preoccupazione”.

Nei campi base l’atmosfera è quella di un campo militare, tutti uomini, tutti lavoratori. Anche se loro ci vivono non è come avere un vero e proprio alloggio, perché nessuno, fuori dalla ditta, può andarli a trovare. Anche dove dormi è luogo di lavoro. Tutto il tempo là dentro è come il tempo lavorato, stai solo con i tuoi simili, sembra di non staccare mai. Appena possono i lavoratori cercano di uscire, di andare ai bar o ai centri commerciali dei paesi vicini. Un lavoratore mi dice: “A volte da qua devi proprio scappare perché tutto questo arancione ti ipnotizza, da noia agli occhi”.

Il campo base di Todini è un ex albergo adattato, lontano dall’abitato di Barberino e di Firenzuola. Ci vogliono almeno 15 minuti di auto per comprare un pacchetto di sigarette. Si trova vicino al cimitero dei tedeschi sul passo della Futa. Un cimitero che si snoda a forma di spirale, con le tombe che sono lastre in pietra tutte uguali adagiate sul prato, sempre tenuto curato dallo stato tedesco. Il centinaio di lavoratori che vivono in quel campo base si sentono ancora più isolati e invisibili. “Come ci sentiamo qua? Dante, quello scemo, qua siamo tutti condannati, su questo monte, in questo luogo dimenticato da Dio. Si fanno i cerchi di un purgatorio continuo”. Un altro lavoratore mi confida “Ho girato molte parti d’Italia nel settore delle costruzioni. Ne ho visti di posti, ma qua è proprio un incubo. Siamo chiusi come in una stalla, c’è sempre la nebbia, un umido e d’inverno nevica spesso. Per vedere qualcuno di diverso ne devi fare di curve”.

“Siamo matricole e non operai, numeri che ci spostano qua e là”. “Cosa penso della sicurezza? A 60 anni non posso essere sveglio come a 20, eppure mi tocca continuare a lavorare.” I giovani, se possono, fanno altri lavori, la galleria non è certo appetibile. Chi ormai lavora intorno alle grandi opere continua a fare il nomade per l’Italia anche se non ha più l’età. L’età media dei partecipanti al questionario è di quasi 43 anni, con un’anzianità di lavoro media pari a 23 anni. Eppure, nonostante questi dati, la percezione è che in generale si stia abbassando l’esperienza professionale, le qualifiche e la stessa cultura lavorativa legata alla galleria. Spesso fra le ditte si registrano infatti alti turn over a significare disagi lavorativi e perdita di conoscenze e competenze che si fatica a ricostruire. Un medico dell’ASL ha provato a chiedere ad alcuni lavoratori chi fosse quella statuina situata all’imbocco della galleria. Qualcuno ha risposto “un santino”, qualcun altro “una madonna”.  Non conoscono Santa Barbara, protettrice dei minatori, che si festeggia ogni anno il 4 dicembre.

Ogni volta che vedo salire su una jeep o un piccolo furgone la squadra di minatori che va verso la galleria e mi salutano dai finestrini, penso a quando staranno nell’arca. La chiamano così quella sorta di scatola bunker dove si rifugiano i lavoratori mentre fuori salta l’esplosivo per far avanzare lo scavo in galleria. Come nell’arca di Noè nel racconto biblico, ogni giorno una sfida al diluvio universale, alla vita quotidiana.
Simona Baldanzi

 

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