Sauro Albisani nasce a Ronta nel 1956. Scopre di essere poeta sui banchi della scuola elementare del suo paese, quando il maestro, che aveva assegnato agli allievi un esercizio poetico in metro e rima, lo dichiara "poeta di classe". Letture notturne, quaderni fitti di versi, amicizie letterarie, sono la cronaca degli anni successivi, quando si trasferisce a Firenze con la famiglia (ma passa le domeniche in Mugello, tra amici e parenti o alle feste paesane a base di tortelli e noci fresche). Legge Dino Campana e le poesie del rontese Filippo Pananti. Riceve un premio di poesia in Santa Croce dalle mani di Margherita Guidacci. Conosce, e frequenta per anni, in un rapporto di profonda amicizia, il poeta Carlo Betocchi, fiorentino d'adozione, che aveva lavorato a lungo nel Mugello, dove aveva conosciuto Nicola Lisi, e aveva scritto con lui il Calendario dei pensieri e delle pratiche solari. A Betocchi dedicherà due libri: “Il cacciatore d'allodole” e “Cieli di Betocchi”. Dopo la laurea in Storia dello spettacolo, con Ludovico Zorzi, Sauro Albisani entra in contatto con il mondo del teatro: Orazio Costa lo chiama a collaborare con lui come aiuto regista; viene realizzata una lettura teatrale di un suo dramma al teatro della Compagnia di Firenze. Alcuni suoi testi vengono rappresentati al teatro Giosuè Borsi di Prato, che Albisani dirige per cinque anni insieme alla sorella. Crea un laboratorio teatrale all'Istituto Tornabuoni di Firenze, con spettacoli che vanno in scena anche al Puccini; collabora con l'Università di Firenze, creando un gruppo teatrale di studenti con cui mette in scena un lavoro su Ulisse all'Archivio di Stato. Pubblica tre raccolte poetiche, "Terra e cenere" (2002, Roma, Il Labirinto), "La valle delle visioni" e "Orografie" (2012 e 2014, Firenze, Passigli). Traduce testi poetici dall'ungherese, dal rumeno, dal latino. Tra i riconoscimenti si segnalano il premio Lerici Pea, il premio Viareggio giuria, Il premio Gradiva New York, Il premio Pascoli. Insegna al Dante di Firenze, al liceo musicale. Di seguito una poesia tratta dalla prima raccolta: "Terra e cenere"
Avevamo due oche tanto belle col becco arancio e il collo che nuotava nell'aria, senza peso. Amoreggiavano l'una presa dell'altra, sempre schive e sdegnose, felici. Gli animali rimproverano l'uomo con la loro felicità. Io le guardavo e attonito mi domandavo: forse anche per noi un giorno fu così, semplice, tutto? Ma venne un giorno di festa e mia madre ne uccise una, io non so se il maschio o la femmina. L'altra per un po' andò cercando la compagna, e invano la chiamava col verso suo. Finché comprese d'essere rimasta sola, divenne altera, prodigiosamente mutò d'indole, quanto prima era pavida e mansueta tanto adesso nella sua solitudine si fece feroce, vigilava che nessuno s'avvicinasse alla casa, aggrediva anche il postino abbassando il collo orizzontale sibilando un fioco urlo col becco aperto come le oche capitoline contro Brenno quando salvarono la vita ai senatori. E tutto il giorno quell'oca superstite, come già morta custodiva immobile la casa dei suoi nemici.