
L'8 e il 9 giugno i cittadini italiani sono chiamati alle urne per votare cinque quesiti referendari, quattro riguardanti il tema del lavoro – proposti dalla CGIL, che ha raccolto quattro milioni di firme pubbliche in meno di tre mesi, dal 25 aprile 2024 al 19 luglio dello stesso anno, giorno in cui sono state depositate in Cassazione –, e uno il tema della cittadinanza – proposto da Riccardo Magi, segretario del partito +Europa, da diversi partiti della sinistra italiana e da associazioni della società civile, che insieme hanno raccolto 637.000 firme digitali. Il 20 gennaio 2025 i cinque quesiti sono stati dichiarati ammissibili dalla Corte Costituzionale. Su ogni scheda bisognerà apporre una X sul sì o sul no. Essendo referendum abrogativi, il sì indica l’abrogazione delle norme sul lavoro e dell’attuale legge sulla cittadinanza, mentre il no indica il loro mantenimento. Come per tutti i referendum, verrà annullato se non si raggiungerà il quorum, la maggioranza degli aventi diritto al voto.
Tre dei quesiti riguardano alcuni punti del Jobs Act, la riforma del diritto del lavoro promulgata dal governo Renzi, entrata in vigore nel 2015 e completata nel 2016. Tale riforma fu avversata da numerosi partiti e dai sindacati. Il motivo principale è che il Jobs Act ha abolito la tutela reale dei lavoratori garantita dall’articolo 18 – che prevedeva la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno a seguito di licenziamento illegittimo, cioè senza una giusta causa – sostituendola con la tutela obbligatoria attenuata, ovvero il diritto del lavoratore dipendente al solo indennizzo economico, ma non alla reintegrazione lavorativa. Un altro motivo riguarda l’aumento della precarietà del lavoro, in quanto, con il disegno di legge iniziale, i contratti a tempo determinato potevano estendersi fino a 36 mesi, a dispetto dei 12 previsti dalla precedente legge Fornero. Con il Decreto Dignità, entrato in vigore nel 2018, tale limite è stato ridotto a 24 mesi.
Il Jobs Act, come ha spesso dichiarato l’ex premier Matteo Renzi, è stato emanato in un momento di grave disoccupazione, e in effetti, se guardiamo i dati ufficiali, nel periodo successivo alla sua emanazione – e fino al 2018, anno del Decreto Dignità – i lavoratori aumentarono di circa un milione di unità. Tale effetto positivo fu dovuto, oltre alla possibilità – descritta in alto – di assumere tramite contratti determinati con maggiore flessibilità e di licenziare più facilmente, anche alla diminuzione del costo del lavoro per i nuovi lavoratori assunti con il così chiamato contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, e alla possibilità di pagare in voucher – buoni lavoro con cui venivano retribuiti i lavori saltuari, poi aboliti.
In tre/quattro anni i lavoratori quindi lievitarono, ma il problema riguardava il come. I lavoratori assunti infatti erano per la maggior parte precari, e con il perenne timore di essere colpiti dalla spada di Damocle del licenziamento. Renzi ha anche detto che il Jobs Act non è la cura al male che affligge l’Italia circa l’occupazione, ma – tramite una metafora da lui usata durante un’intervista – una manovra emergenziale che a suo tempo riuscì a salvare il paziente in fin di vita. Ma una volta ristabiliti i parametri vitali, si arriva però al processo riabilitativo che deve riportare il paziente a vivere una vita normale, efficiente e in salute. Ed è su questo obiettivo che si stagliano i primi tre quesiti del referendum del mese prossimo.
Il primo quesito riguarda, appunto, il licenziamento illegittimo previsto dal Jobs Act di un lavoratore assunto in un’azienda con più di 15 dipendenti, che ha diritto solo a un indennizzo economico, senza reintegrazione nel luogo di lavoro. Nel caso passasse il sì, il giudice potrebbe stabilire l’invalidità del licenziamento con il reintegro in azienda. Il secondo riguarda le indennità ai lavoratori licenziati in aziende con meno di 16 dipendenti, che si fermano a un massimo di sei mensilità. Se passasse il sì, tale soglia verrebbe eliminata, e spetterebbe così al giudice stabilire risarcimenti più alti, maggiormente adeguati al danno subìto. Il terzo quesito si focalizza sui contratti a termine. Ebbene, se rimanesse invariato il Jobs Act, questi possono estendersi fino a 12 mesi senza indicare alcuna motivazione, mentre se vincesse il sì il datore di lavoro sarebbe costretto a farlo.
Il quarto e il quinto quesito riguardano la sicurezza sul lavoro e il diritto di cittadinanza. Nella fattispecie, per quanto riguarda la sicurezza, il referendum si propone di estendere la responsabilità degli infortuni non soltanto all’azienda che esegue direttamente i lavori, ma anche a quella committente, offrendo così un’ulteriore tutela ai lavoratori. Per quanto riguarda il diritto alla cittadinanza, il referendum mira ad accorciare il tempo per ottenerla, dai dieci previsti con le regole attuali a cinque, nell’ottica di una integrazione più veloce.
In un periodo come quello che viviamo dove viene detto che destra e sinistra sono diventati metri di misura anacronistici – poiché spesso si confondono l’un l’altro – referendum di questo tipo ci mostrano una realtà diversa, ovvero che riflettono, ancora oggi, due categorie distinte, con differenze talvolta siderali. Ma andiamo con calma. All’interno del Partito Democratico guidato dalla segretaria Elly Schlein si ha una corrente che fa capo a Stefano Bonaccini, chiamata Energia Popolare, che voterà no ai tre quesiti referendari del Jobs Act – e quindi è a favore del mantenimento della legge attuale – ma sì a quelli sulla sicurezza sul lavoro e sulla cittadinanza. Dello stesso parere il padre della riforma, Matteo Renzi, ma anche personalità influenti del PD, come il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, che dichiarò di preferire una riforma totale, e non parziale. Il resto delle forze politiche di sinistra, all’opposizione, è per tutti e cinque i sì.
Diverso è l’atteggiamento del centrodestra, al governo da settembre 2022 e con alla guida Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio dei ministri, che invita i propri elettori all’astensionismo. Il Ministro degli Affari Esteri Antonio Tajani, di Forza Italia, si è espresso dicendo che non vige nessun obbligo di andare a votare, sperando così che non venga raggiunto il quorum di validità. Fratelli d’Italia ha indicato ai suoi parlamentari di astenersi, tramite un testo in cui viene detto che l’iniziativa referendaria in questione è promossa dalla sinistra. Sulla linea astensionista è d’accordo anche la Lega.
Votare è un diritto sacrosanto, e piuttosto che spingere per astenersi dal farlo, sarebbe giusto incentivarlo, soprattutto dai leader che sono stati chiamati a governare. È alle urne che si deve esprimere il dissenso, e non invitando a stare a casa, boicottando così la partecipazione democratica alla vita politica e sociale del paese, oltretutto in un momento storico dove i giovani sono sempre più disinteressati a ciò che li circonda. Sono le posizioni assunte in questo referendum dai due storici schieramenti che rivelano la loro identità più profonda, a discapito delle maschere imbellettate con cui spesso cercano di nasconderla.
Proporre l’astensione perché il referendum è stato promosso dalla sinistra è un comportamento capriccioso, da bambini dell’asilo. Renzi, poi, si è sempre definito un uomo di sinistra – anche se le sue azioni hanno a volte dimostrato il contrario –, infatti emanò la riforma del lavoro da leader del PD. Che la destra se ne sia dimenticata? Il miglioramento delle condizioni di lavoro dovrebbe essere appannaggio di ogni partito, indipendentemente dalle sue radici di appartenenza. Sono tematiche, e battaglie, che devono unire, e non allontanare. Si può discutere di una miriade di questioni, si possono avere divergenze, abissali talvolta, ma è inammissibile guerreggiare sui diritti nei confronti di una categoria delicata come quella dei lavoratori dipendenti. Il punto è che il referendum, nei suoi primi quattro quesiti, si presenta come un vero e proprio programma di miglioramento delle condizioni di lavoro, e ciò dovrebbe essere sufficiente affinché gli venga riconosciuta la giusta importanza, e non, come è avvenuto, un totale declassamento.
Il centrodestra può non essere d’accordo – siamo in democrazia, nulla da eccepire –, ma i cittadini devono esigere di sapere il perché, soprattutto dopo che quattro milioni di loro – noi, insomma – hanno apposto una firma affinché il referendum raggiungesse il numero necessario per essere portato al voto; cittadini che si sono informati sul suo contenuto, e che hanno perciò partecipato attivamente alla vita politica italiana. Tirare in ballo l’ideologia di sinistra non è un atteggiamento da persone serie che hanno a cuore gli interessi dei lavoratori. L’unico interesse che giustifica un comportamento del genere è semmai quello di perdere la poltrona, motivato dal timore – in caso di effettivi miglioramenti delle condizioni di lavoro, che potrebbero essere una diretta conseguenza dei sì del referendum – di un aumento del prestigio del centrosinistra.
Proposte che mirano a far evolvere in meglio la società devono essere prese sul serio. Così facendo, il centrodestra italiano – che ha sempre sottolineato di sentirsi lontano da una certa destra storica (che guarda principalmente agli interessi della classe borghese e aristocratica) e vicina alla destra di stampo sociale, e quindi portatore della giustizia sociale – dimostra di rappresentare soltanto una certa categoria di lavoratori, quella degli imprenditori. Che sia questa la sua vera faccia? Dopo gli innumerevoli morti sul lavoro – in Toscana si contano 11 vittime da inizio anno – la strategia proposta dalla destra è evitare un confronto e proporre un'astensione di massa su un punto referendario che parla di diritti dei lavoratori. Non fa rabbia?
Qui non si tratta se sia giusto votare sì o no ai quesiti, ma la non serietà del centrodestra davanti alle buone intenzioni di chi ha proposto il referendum. Scegliere la via dell’astensione per tenere fede al principio del se l’ha proposto la sinistra è sicuramente sbagliato, chiude le porte al confronto. E i confronti seri, in cui si cerca di capire il punto di vista dell’altro, oggi sono i grandi assenti – quanti sanguinosi conflitti potrebbero cessare se i leader si confrontassero tra loro con l’idea di ammettere le proprie colpe e di essere pronti a dare ragione all’altro, e a sostenerlo addirittura, nel caso ce ne fosse bisogno?. Il centrodestra ha fatto una pessima figura non esponendo le proprie riflessioni sul no, e i governi, prima di ogni altra cosa, si misurano in serietà.
Maria
Condivido meglio non andarci a votare