Erano i primi anni Novanta, il paleolitico se consideriamo i progressi tecnologici che hanno reso più agevole la vita dell’uomo, a partire dagli smartphone e dalla diffusione capillare di internet. Nel 1993 Silvio Berlusconi si preparava a scendere in politica con un partito liberale, Forza Italia, sperando di arginare la sinistra e detassare gli imprenditori come lui; lo scandalo Mani pulite aveva inferto il colpo finale alla fiducia riposta dai cittadini nei confronti della politica, ridotta al lumicino da tempo, ma il potere di acquisto di allora, paragonato a quello di oggi, era di gran lunga superiore; gli anni di piombo erano finiti da un decennio, il muro di Berlino era crollato poco tempo prima, e i giovani non sognavano una rivoluzione radicale della società, come avvenne durante il Sessantotto.
Le Torri Gemelle si stagliavano su Manhattan dritte e autoritarie, simboli di un occidente opulento e in salute, che pochi anni dopo avrebbe mostrato tutta la sua debolezza. Gli anni Novanta in Italia furono insomma un periodo di transizione, stabili dal punto di vista economico, ma profondamente feriti da un’organizzazione mafiosa che sembrava invulnerabile: Cosa nostra.
L’origine di Cosa nostra non è certa; per alcuni storici sorse nel XIII secolo, per altri nel XV, per altri ancora nel XIX secolo, prima dell’unità d’Italia. Durante un’intervista Tommaso Buscetta disse che nacque con intenti nobili, per poi prendere la direzione opposta.
Se non conosciamo esattamente il periodo in cui comparve per la prima volta, sappiamo però quali e quanti danni ha arrecato al paese. Conosciamo i nomi e i volti degli uomini di stato che con coraggio si sono battuti per fermarla, finendo poi per essere trucidati, e di tutti i cittadini comuni che hanno perso la vita per mano di attentati, scambi di persona e vendette, come accadde ai parenti dei mafiosi pentiti negli anni Ottanta e Novanta. E’ proprio grazie alla collaborazione dei collaboratori di giustizia, in primis quella di Tommaso Buscetta, che conosciamo il funzionamento interno della mafia siciliana, ossia i suoi riti liturgici, le sue regole, le sue spartizioni territoriali, ma soprattutto i suoi giri di affari.
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L’apice del potere mafioso fu raggiunto con l’arrivo dei corleonesi, un gruppo di mafiosi provenienti da Corleone, piccolo paese agricolo della provincia di Palermo, che negli anni Settanta cominciò a sedersi al tavolo della così detta Cupola, l’organo direttivo che riunisce le fazioni di Cosa nostra palermitane. Dopo l’arresto di Luciano Leggio, detto Liggio, Salvatore Riina divenne il capo del clan dei corleonesi. Da quel momento verrà stravolta completamente la costituzione della mafia siciliana, che si macchierà di efferatezze di ogni genere e di crimini indicibili.
L’interesse principale di Salvatore Riina era divenire il capo indiscusso di Cosa nostra, e per farlo cominciò a fare fuori i capi clan. Non voleva avere alcuna concorrenza. Chi si opponeva al suo piano egemonico, cadeva. Gli omicidi nei primi anni Ottanta si contavano a centinaia, e lo stato cominciò a mettere in campo tutte le sue energie, ma niente sembrava scalfire la mafia. I corleonesi, che avevano agganci perfino all’interno della politica - ricordiamo Vito Ciancimino, sindaco di Palermo negli anni Settanta, che venne condannato in via definitiva per associazione mafiosa - decisero di fare la guerra alle istituzioni. La mafia non seguì più, come fece in passato, la via dell’invisibilità, del meno facciamo rumore e meglio è - tali condotte furono riprese in seguito da Bernardo Provenzano, successore di Riina dopo il suo arresto - ma quella della polvere da sparo e del tritolo. La via del sangue.
Cosa nostra decise di mostrarsi, di comunicare all’Italia intera che in Sicilia comandano loro, i mafiosi, criminali che si arricchiscono tramite il pizzo, il traffico di sostanze stupefacenti, l’abuso edilizio e tante altre attività illecite. All’epoca la mafia aveva un proprio esercito ben armato e addestrato, operante in un territorio omertoso, che giustiziò molti di coloro che cercarono di sconfiggerla. Ho usato il verbo giustiziare non a caso: per i mafiosi togliere la vita a giudici, politici, poliziotti, come di fatto avvenne, significava far trionfare la giustizia; il mafioso è convinto di essere dalla parte del giusto, e che è lo stato ad essere criminale. Il ragionamento è il seguente: qua ci siamo noi. Tu stato, che ti mobiliti per arrestarci, chi sei per poterlo fare?
Fu un combattimento corpo a corpo: lo stato promulgava una legge contro i mafiosi, ed essi rispondevano con il fuoco. La strage di via dei Georgofili, avvenuta a Firenze nell’omonima via del centro, si inquadra in questo via vai di continue e sanguinarie rappresaglie mafiose. Era il 27 maggio 1993, esattamente trent’anni fa, quando un furgone bianco della casa automobilistica Fiat esplose. Dentro erano stati sistemati 250 chilogrammi di esplosivo. Nell’esplosione venne distrutta la Torre dei Pulci, provocando altresì gravi danni al patrimonio artistico della città - circa il 25% delle opere del museo degli Uffizi, a un passo dalla deflagrazione, venne danneggiato -. Cinque i morti - una famiglia e uno studente universitario - più decine di feriti.
Firenze non fu l’unica città vittima delle stragi di Cosa nostra. Oltre alla martoriata Palermo, anche a Roma e a Milano vennero fatte deflagrare bombe. La strategia di Totò Riina si rivelò fallimentare. Cosa nostra mostrava i muscoli, ma in realtà si faceva sempre più debole: le istituzioni rifiutarono di scendere a accordi con la mafia; a Palermo aumentavano i posti di blocchi e la presenza di forze dell’ordine e dell’esercito; i collaboratori di giustizia si facevano sempre più numerosi, e il nervosismo dei mafiosi aumentava di giorno in giorno per via di ciò che li avrebbe attesi se fossero stati arrestati, ossia il Regime del 41 bis.
Il periodo stragista si concluse con la cattura del capo dei capi, Salvatore Riina, ma a distanza di anni rimangono ancora questioni irrisolte su uno dei periodi più bui della storia d’Italia. Ciò che ancora persiste sono le lacrime dei parenti delle vittime e il loro ricordo.
Paolo Maurizio Insolia