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'Ti racconto la mezzadria'. Gli anni '30 e '40 a Borgo

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Una nuova appassionante puntata della rubrica 'C'era una volta in Mugello', a cura della nostra collaboratrice Matilde Colarossi. Una storia che traccia a tinte nitide il quadro della società mugellana come era negli anni '40 e '50. Una società contadina in cui i mezzadri erano s0l0 un ingranaggio di una complicata macchina.... Buona lettura....

“La vita di paese era un aggregato sociale”. Queste sono le prime parole che mi dice Mario. E tutti i suoi ricordi ritornano lì; quando mi parla dei suoi vicini, dei suoi amici, della sua famiglia. Un aggregato sociale dove tutti davano una mano a tutti, anche se non avevano niente.

Mario è nato il 1° maggio del '33 in Piazza dell'Orologio a Borgo San Lorenzo, in un casamento di sei inquilini. Il paese si estendeva a nord fino alla strada nuova, a sud fino ai Bastioni, a ovest fino al Ponte Rosso e si chiudeva a est prima della tenuta dei Pecori Giraldi. C'erano circa 2000 abitanti e si conoscevano tutti.

All'epoca il sindaco si chiamava Podestà e le strade, a parte quella centrale che era in pietra, erano sterrate e d'estate “s'annaffiava con l'autobotte per non far alzare troppo la polvere, anche se non c'erano mica le macchine...”.

L'unica risorsa del paese erano le Fornaci Brunori che impiegavano circa 150 operai, uomini e donne, e due manifatture di lana. Una di queste, Stefanini, produceva guanti e occupava 50 donne; una era sua madre, e a 15 anni sarebbe entrato anche lui a lavorare lì e avrebbe filato lana per ben 26 anni.

“Le strade non erano illuminate allora - dice - Quando gli operai uscivano dalle fornaci non si vedevano, coperti com'erano di fuliggine”.

Anche la scuola era da quelle parti, a nord del paese “vicino a dove ci sono le medie ora. Si passava sotto il ponte della ferrovia e lì c'erano le elementari. Per maschi e femmine...certo per chi ci poteva andare. C'era anche la scuola delle suore, ma lì c'andavano i figli di chi aveva”.

“La mamma - continua - era brava a cucinare. Quando faceva la minestra veniva giù tutto il casamento. Giovannina, invece, partiva tutte le mattine con una siringa e faceva punture a tutto Borgo. Andava a fare buchi gratis. Stessa siringa per tutti”. Scuote la testa: “Non era mica come ora! Si lasciava tutti la chiave nell'uscio. Mio padre morì quando ero ancora ragazzo e la mamma andava a lavorare presto, allora ci lasciava a letto. La signora di sotto veniva su tutte le mattine a chiamarci. Aiutava mio fratello a vestirsi...Così. Lo faceva così. Ci si aiutava “.

Tutto intorno al centro abitato c'erano i grandi e piccoli poderi di una volta: i Frescobaldi con più di 300 poderi, i Martini in zona Panicaglia, i Sicuteri che avevano tutta la montagna da Ronta in su, i Collalto, e i Maganzi, che, “non sposandosi la prima figlia, non si poterono sposare neanche le altre...e così finì la famiglia”.

“La campagna era fatta a popoli - racconta Mario - Dove c'era una chiesa c'era un popolo: Olmi, San Quirico, Lutiano, San Giovanni, Tintoria e così via”.

In paese chi lavorava sottoposto qualcosa in tasca l'aveva, anche se, come mi dice Mario “i padroni avevano l'abitudine di pagare l'operaio la domenica mattina dopo le 11”.

Gli chiedo perché. “Forse per non farceli spendere subito”, mi risponde. Ma comunque la scuola c'era, le botteghe pure, le farmacie...e qualche spicciolo in tasca.

“S'andava al cinema in branco! - ride - S'andava un gruppo di ragazzi, un branco e s'aspettava fuori che si abbassassero le luci. Poi usciva quello alla cassa e ci diceva 'Quanto avete?' Noi ci si metteva le mani in tasca e si mettevano insieme gli spiccioli. Lui scuoteva la testa e diceva 'Entrate'. Ecco, in branco! Che tempi. Chi poteva mettere di più, metteva di più, chi non aveva nulla non metteva nulla...”

C'era pure La Mescita, parolache deriva dal verbo mescere, cioè versare. La sera le donne stavano in casa, ma gli uomini del paese andavano a La Mescita: giocavano a carte o stavano solo a chiacchierare, e si prendevano un bicchiere di vino. C'era chi lavorava nelle fornaci, chi a Firenze, chi a giornata nei poderi. Il martedì invece, giorno di mercato, arrivavano i contadini che si prendevano un Marsalino. “Oggi chi la beve più? Finiti i contadini, finita anche la Marsala!”

“La mia mamma - dice Mario - era 'ambiziosa', e lo ero anch'io: feci le scuole elementari e poi anche l'avviamento professionale in una scuola che si trovava in piazza a Borgo, accanto al Comune, ma studiai per fare niente, lavoravo già”.

Cominciò a lavorare il 4 maggio del '48, Mario, e le soddisfazioni riuscì davvero a levarsele: “Mi compravo una camicia nuova ogni tanto, da Vittoria. Quando andavo a trovare la mia fidanzata, oggi mia moglie, figlia di contadini a Olmi, i tanti fratelli le dicevano: Toh, ha un'altra camicia. Tu ti sposerai nel 2000!”

Ed eccoci all'altra faccia di Borgo e del Mugello di allora, quella fuori dalle mura delle città, quella del duro lavoro nei poderi: il contadino. Sebbene non fosse la pedina più bassa della scala sociale (c'è sempre chi sta peggio) poco ci mancava.

Peggio, infatti, stavano solo il barbone e il salariato.  “Il barbone - spiega Mario - girava per le campagne a 'opra'. Facevano le opere per i contadini in cambio di una 'bollettina' di patate o farina. A quei tempi il lavoro non c'era...basta pensare che le fornaci occupavano 150 operai, mentre a Borgo s'era più di duemila, e per fare il contadino bisognava avere una famiglia numerosa che lavorava nei poderi; così, chi era solo, per campare andava a 'opera'. Alcuni erano di Borgo; andavano nei poderi, dai contadini, a chiedere un po' di lavoro e tornavano a casa la sera con qualcosina da mangiare; altri venivano da lontano e si fermavano la notte; dormivano nelle stalle, perché nelle casa erano già tanti, e poi ripartivano”.

Immagino una specie di transumanza umana, come quella che facevano i pastori delle grandi proprietà quando, diretti per la Maremma, come dice Mario, passavano per Borgo guidando “così tante pecore, che ci mettevano una settimana a passare”.

Un po' meglio del barbone stava il salariato. Anche lui, come il contadino, lavorava per le fattorie, ma non in modo continuo; erano falegnami, muratori che stavano a Borgo e si presentavano alla fattoria la mattina presto e lavoravano la giornata nelle varie case, nei vari poderi vicini ma anche lontani, a rimettere una porta, un tetto. Non sapevano mai dove sarebbero stati mandati, ma qualcosina riuscivano a prenderlo.

Poi c'erano i contadini mezzadri, cioè che dovevano la metà del raccolto al padrone; i campagnoli, che potevano avere una mucca, un pezzetto di terra di proprietà; l'operaio che aveva uno stipendio adeguato alle sue competenze; l'impiegato; e il gerarchia comunale, il Podestà, e le guardie.

Ma quello che più mi appassiona nel racconto di Mario è il contadino. Il mondo del contadino che sarebbe dovuto essere il più semplice, il più naturale del mondo, si rivela quello più complicato, più sfruttato, più difficile e pieno di insidie. Bisognava essere furbi, sapersi arrangiare solo per sopravvivere. Ma barare era un azzardo e si poteva perdere tutto.

I mezzadri che mandavano avanti i tanti ricchissimi poderi, che mandavano avanti le vaste campagne di 4-5 ettari con una zappa in mano erano soggetti a numerosi soprusi.

Anche qui, come in città, c'era una gerarchia ben definita e una storia di 'ruote da ungere' perché la grande macchina potesse funzionare, sempre, è beninteso, a spese del contadino.

Il contadino che riusciva ad avere una casa in un podere doveva avere una famiglia numerosa. Tutti dovevano lavorare nei campi per il padrone; guai a perdere un figlio o avere un figlio che trovava un lavoro in città: c'era il rischio di perdere tutto. Tutto sulla proprietà era del padrone: dal fungo all'uccellino, dall'uovo all'uva, e lavorando 365 giorni l'anno una parte toccava anche al mezzadro.

Il contadino era in balia di tutti: il mediatore, che presenziava lo scambio di merci; 'il guardia' che controllava che lavorasse e non rubasse; il terz'omo che controllava il 'pomario', cioè il frutteto; il sotto-fattore, un ragazzo che studiava ai Salesiani per diventare fattore e faceva una specie di apprendistato; la fattoressa che gestiva il pollaio; il fattore che gestiva il lavoro dei campi;  il Signorino che veniva a fare i 'saldi', cioè i conti, per i padroni alla fine dell'anno; e il padrone che non si vedeva quasi mai.

Non importava quanto lavorasse, ma la sentenza dettata dal signorino ai 'saldi' era sempre la stessa per il contadino che non sapeva leggere: “Vu siete a debito!”

Sì, perché chi non sapeva leggere, neanche il bilanciere, doveva fidarsi e basta. Ma di chi?

Quando il Signorino arrivava per fare i 'saldi', il contadino si preparava per giorni all'incontro, provando e riprovando il saluto come se questo potesse cambiare la sua sorte. Il Signorino registrava le entrate e le uscite, le spese – sì perché usare un macchinario della fattoria  costava al contadino, anche se il lavoro lo faceva per loro, e veniva scalata dalla sua parte – e decideva cosa spettava al mezzadro, quasi sempre nulla.

Il contadino doveva ringraziare tutti: il fattore perché gli aveva permesso di lavorare come un ciuco, il 'terz'omo' perché non vedesse qualche irregolarità quando raccoglieva la frutta nel pomario, 'il guardia' perché chiudesse un occhio e non facesse la spia al padrone nei boschi, e l'ultimo il mediatore.

Il mediatore era un uomo che sapeva leggere e 'aiutava' il contadino nelle trattative. Se c'era da vendere un'animale, o la lana, o qualsiasi altra cosa, il mediatore andava dal compratore al venditore per cercare l'accordo, ma non solo sul prezzo, anche sul peso. A quei tempi, quando uno dei due non sapeva leggere, si negoziava anche sul peso di un animale. Spesso a spese del contadino. Una bestia che in verità pesava 200 chili si poteva vendere per 120 chili, e succedeva. Trovato l'accordo mettevano tutti le mani insieme, una sull'altra e le tiravano su e giù tre, quattro volte e l'affare era fatto.

“In Borgo, c'erano otto famiglie di mediatori - racconta Mario - Quando andava via il calesse era pieno”.

Il mezzadro avrebbe dovuto prendere la metà del raccolto, ma tolte le spese, non gli bastava mai e finiva l'anno sempre a debito con il padrone. Per comprarsi le scarpe o un vestito doveva vendere una sua parte di grano o vino, togliendolo dalla famiglia. Se riusciva a mettere qualcosa da parte e si comprava una bicicletta, per il padrone voleva dire che aveva rubato, allora la doveva nascondere fuori dal paese dove nessuno la poteva vedere.

“Mia nonna aveva un banchino di semi al mercato”, dice Mario, “ io andavo ad aiutarla. Si sapeva tutto di tutti, quanti semi si poteva permettere un contadino, se si arrangiava vendendo qualche piccione, un coniglio. Venivano la domenica con la borsa coperta di paglia per non fare vedere cosa c'era dentro e dopo lo scambio ritornavano a casa con qualche spicciolo”.

Erano tempi così, dove tutti avevano il libretto dove si segnava dei “pagherò” a volte difficile da saldare per chi era sempre e solo a debito.

E i padroni, chiedo, non vedevano l'ingiustizia? “No, bastava portare lo stendardo del crocefisso in cima alla processione”.

 

 

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