Nuova puntata per la nostra rubrica 'Appunti di viaggio...' riceviamo e pubblichiamo questa nuovo contributo da Caterina Suggelli, nostra lettrice studentessa a Cuba:
Qualsiasi luogo del mondo soffre le sue discriminazioni, nessuno escluso. Ho imparato a conoscere il “diverso da me” nel mio paese, osservando e ammirando gli immigrati per la strada, studiando culture differenti dalla mia a scuola e all’università, poi viaggiando, facendo scambi con studenti stranieri, lavorando con immigrati nel Centro per richiedenti Asilo Politico di Firenze, allo stage del Meeting contro il razzismo di Cecina dell’Arci, esplorando documentari, reportage, e libri vari, di Levy Strauss, di Deridda, Belloun, Le Clezio, e di Sepúlveda, Cortazar, Belli, Guevara de La Serna, e ancora di Terzani, Aime o del mio amato concittadino Fosco Maraini, e via dicendo.
Ma niente vale il confronto di vivere la diversità sulla propria pelle. La prima volta che mi sono veramente resa conto che anche io ero una “diversa” fu grazie a un viaggio in Madagascar. Per i malgasci, ancora poco abituati al turista (fortunatamente, mi sento di dire), io ero la “vahaza”, termine che designa i bianchi europei, perché nella lingua malgascia esiste un termine per ogni diverso tipo di straniero, secondo la provenienza e i tratti somatici, che sia europeo, africano, indiano o asiatico.
Ritrovarsi in un paese lontano, difficoltoso e poco conosciuto, nonostante mi fossi ben preparata a riguardo, e con serie difficoltà di comunicazione - perché se è vero che il francese è lingua nazionale, è altrettanto vero che pochissime persone in realtà lo parlano -, e essere perfettamente riconoscibile come “diversa”, poiché non esiste maniera di mascherarlo, può essere un’esperienza piuttosto dura e straniante.
Mi ricordo che, arrivata a un minuscolo villaggio di pescatori Vezo, isolato nella costa occidentale del Canale di Mozambico, dove davvero capita molto raramente di vedere stranieri, fui subito accolta da una moltitudine di bambine che, cantando in coro in girotondo attorno a me, mi diedero il benvenuto, per poi avvicinarsi in massa e accarezzarmi, toccarmi pelle e capelli, osservandomi come qualcosa di raro, quasi alienante.
Fortunatamente questo fu un modo molto positivo di sentirmi “diversa”, ma fu solo la prima di una serie di esperienze stranianti ed educative che ho avuto la possibilità e la volontà di vivere sulla mia pelle.
Ma non sempre è così. Essere il “diverso”, la maggior parte delle volte, può essere davvero tremendo e umiliante. Provare per credere, e per capire! Ora, vi chiederete: “E che c’entra questo con la tua vita a Cuba?” C’entra e come. Perché qui io sono Yuma, gringa, “straniera”. E oltretutto europea, del primo mondo, quello ricco.
Nonostante il fatto che la mia “diversità” qui sia meno estremamente evidente che in Africa, per esempio, nonostante che dopo due mesi e tanta “scuola di strada” mi sia ben integrata e abbia imparato abbastanza a mimetizzarmi nella mezcla cubana, nonostante che io non sia una turista in realtà, ma una studentessa temporaneamente residente e con le carte in regola. Ma per chi vede il turista come fonte di guadagno, la yuma è sempre la yuma.
E non è solo il turista a essere “discriminato”. Anche il cubano a suo modo e in certe occasioni lo è. Per questo il rapporto cubano-turista è spesso ambiguo, è spesso un rapporto di amore/odio. Per comprendere meglio, è utile chiarire il fatto che, dopo la tremenda crisi economica del periodo especial degli anni ’90, l’economia cubana si sostiene principalmente sul turismo. Perciò il turista fa la differenza ed è una categoria privilegiata. E allo stesso tempo sfruttata.
Tutto cambia nella vita quotidiana tra un cubano e un turista: prezzi e possibilità. L’altro fine settimana, per esempio, ero a fare un giro fuori città con una amica, anch’essa studentessa. Per pranzo ci fermammo a un ristorante dove i cubani e gli studenti come noi pagano in moneta nazionale, mentre i turisti pagano in pesos convertibles e prezzi differenti, chiaramente. E anche il menù è spesso diverso.
Infatti, successe che a un signore cubano al tavolo accanto al nostro, che voleva mangiare un pollo arrosto, gli fu detto che non c’era, quindi gli toccò il solito riso e fagioli con pezzi di pollo lesso. Mentre stava mangiando il medesimo piatto di sempre, però, gli passarono davanti con un bel pollo arrosto fumante, destinato a un tavolo di francesi dell’altra sala. Quando se ne rese conto, naturalmente, si arrabbiò come un toro e si alzò imprecando: “Ah! E così non c’è pollo per i cubani, ma c’è pollo per i turisti! E noi che siamo? Non contiamo niente in casa nostra?”. Tutti si voltarono a guardarlo tranne i francesi che stavano mangiando e neanche si resero conto. Qualcuno gli diede ragione e si unì al coro, qualcun’altro commentò che tanto-si-sa-che-è-così-e-che-vuoi-farci, altri continuarono a mangiare in silenzio. Io e la mia amica ci guardammo e ci capimmo in un istante: aveva pienamente ragione, e vivendo noi i due lati della medaglia, lo capivamo perfettamente. Ma non successe nulla, quelli del ristorante non si preoccuparono neanche di dargli una spiegazione, e la cosa finì lì.
Quella sera poi facemmo tardi, e quando arrivammo per cena allo stesso ristorante – era l’unico della zona - stavano quasi chiudendo. Ma dato che ci riconobbero “straniere” e turiste, ci dissero che qualcosa era rimasto e ci fecero sedere, portandoci il menù turistico. Quando si trattò di dire al cameriere che non eravamo turiste ma studentesse e che quindi avremmo consumato in moneta nazionale, la situazione cambiò completamente: in cucina non era rimasto niente perché avevano già chiuso e pulito, quindi potevamo anche alzare i tacchi e andarcene, senza che nessuno si preoccupasse almeno di chiedere scusa o giustificarsi in modo migliore…
Menomale che non troppo distante trovammo un locale dove vendevano pizze, perché non ci vedevamo più dalla fame! L’altra faccia della medaglia, invece, la si affronta quando non vogliono riconoscerti come studente per farti pagare di più, che si tratti di musei, concerti, trasporti o conoscenze di strada. Che importa se sei studente, prima di tutto sei yuma, hai gli euro ed è questo che vale.
Ieri, per esempio, con un amico uruguayo, studente borsista a Cuba da cinque anni, abbiamo preso un taxi vecchio, in moneta nazionale, di quelli che prendiamo tutti i giorni per spostarci. Durante il tragitto, soprappensiero e senza ricordarci del “trattamento-yuma” ci siamo messi a parlare un po’ italiano e quando siamo scesi l’autista voleva che lo pagassimo in pesos convertibles. Non ne voleva sapere del fatto che fossimo studenti, che avessimo il documento che lo dichiara e tutto quanto. Per lui eravamo solo yuma.
E io chiedevo al mio amico: ma non ti stanca, dopo cinque anni che vivi qui, essere ancora trattato da straniero e dover dare sempre spiegazioni sul tuo stato di studente borsista e quindi in diritto di pagare in moneta nazionale?! Claro che stanca! Non ci si abitua mai alla discriminazione, neanche quando è tutto sommato blanda e inoffensiva come questa.
E a tal proposito mi viene da pensare agli immigrati di casa nostra, a come possono sentirsi a non essere mai completamente accettati e integrati nonostante l’impegno, gli sforzi, i sacrifici, il lavoro. È davvero tremendo e umiliante il fatto di non essere accettati, ancor di più quando si è in regola, si lavora e si vive onestamente… Ma mai “degnamente” a quanto pare, perché quando la società non accetta, non considera e non tratta alla pari ogni essere umano, come purtroppo succede in modo sempre più evidente nel nostro vecchio continente – e non solo -, il discriminato non riesce a sentirsi degno, può forse stare in pace con sé stesso, ma non certo con il mondo che lo circonda e non lo vuole, non lo accetta, lo emargina.
E il sentimento che provoca l’emarginazione porta a non sentirsi neanche più in pace con sé stessi, perché ci si sente sempre fuori gioco, fuori luogo. La discriminazione, poiché divide e allontana, non è altro che fonte di ulteriori problemi. Anche per questo dovremmo provare a metterci nei loro panni, e almeno iniziare a pensarci su…
Non credete?!
Caterina Suggelli