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Campana poeta pazzo? Una riflessione di Lorenzo Somigli, giovane giornalista

Un contributo tutto da leggere

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Lorenzo Somigli Lorenzo Somigli © N.c.
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I pazzi sono sacri ad Allah”, me lo diceva un caro amico libanese, geniaccio di Byblos. Ho apprezzato molto il testo di Rodolfo Ridolfi che spiega con dovizia il caso del manoscritto del “poeta pazzo” o meglio del poeta “che palpava il mondo al di là del convenzionale”, per dirla con il Papini (1). 

La prima volta che lo lessi – quinto anno di Liceo e professoressa che pronunziava il suo nome con spiccato accento pugliese – ebbi la sensazione di uno scritto iniziatico, eleusino. Mi colpiva il suo far esplodere il dettaglio, il cogliere silenzi e misteri di luoghi conosciuti del quotidiano come nel suo “Giardino invernale”. 

È una personalità quella del Campana che aveva certamente affiancato al continuo, irrinunciabile confronto con la classicità e la tradizione, anche pittorica, il confronto/scontro con la modernità, le Avanguardie che allora popolavano il capoluogo fiorentino, con gli influssi esteri, come quello francese, quello tedesco, quello statunitense ovvero gli amati Whitman e Poe (con le sue poesie come “Il Corvo” e non solo). Assorbito tutto, ci tenne a coltivare una sua alterità. 

Campana non si sentiva futurista – pare da alcune lettere che li disprezzasse come disprezzava più o meno tutti (in questo più tosco che emiliano). Era tutto futurista nella simultaneità delle sue visioni che si affastellano come il “Viaggio a Montevideo. Quella simultaneità che rende bene il senso di un’epoca di cambiamento, che rivediamo nella frenetica elencazione del Fortunello di Petrolini con il suo “Sono: Omerico Isterico Generico Chimerico Clisterico”.  

Del resto, la simultaneità, più che un esercizio di stile, è un moto dell’animo umano, con i suoi torbidi, le sovrapposizioni mnemoniche, le sue note stonate; è l’identità umana che è necessariamente complessa e plurale, più d’una naturalmente. 

In più, la sua polemica, che si legge in svariate lettere, contro una cultura italiana incapace di aprirsi, oggi si direbbe “museificata”, è più che mai valida; la si ritrova, sempre in scritti di poeti coevi, seppur con toni più arrembanti, come Majakovskij, il poeta russo (tutto futurista lui) chiede di “…è tempo che le pallottole risuonino sulle pareti dei musei. Fuciliamo l’anticaglia…”.  

E ancora i suoi sentimenti notturni e dolenti mi sembrano echeggiare – è lo spirito del tempo – quelli del Prufrock di T.S. Eliot (3) e di tutta la sua produzione. 

Penso che tutt’oggi possa parlarci molto il Campana uomo del suo tempo, figlio dell’esordio inquieto del Novecento e delle contraddizioni di allora, con la sua ineguagliata ipersensibilità. Oggi che tutti vorrebbero essere ribelli e autentici e sentimentali e veri e poi finiscono per arenarsi nel fotocopiare il pensiero altrui, senza alcuna individualità. Oggi che siamo meno umani e molto più soli, ecco che la sensibilità del genio, di Campana e dei coevi, di coloro che altri lutti hanno vissuto ci può aiutare.  

Potrei parlarne per ore, il Campana ogni volta mi appassiona e spero che altri si appassionino, come me. Per adesso ringrazio Rodolfo e il Vostro giornale per l'ospitalità. E stasera mi darò alla rilettura… 

Lorenzo Somigli
Giornalista 

1. Fonte: introduzione dei Canti Orfini, ET Edizione.  

2. “Troppo presto per cantar vittoria” (1918), contenuto in Ode alla Rivoluzione (Passigli Editore).  

3. “The Love Song of J. Alfred Prufrock” (1910-1911). 

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