Mentre tutti siamo ancora sotto choc sulla vicenda di Chiara, massacrata da Filippo e per una settimana in fuga dopo il delitto fra i molti temi su cui è doveroso fermarsi è il linguaggio di genere.
Un interrogativo che, da direttora di una testata giornalista mi pongo.
Ho usato volutamente il termine direttora, che peraltro viene riconosciuto dai "sistemi di correzione" come errore e questo già la dice lunga sui parametri (maschilisti) che vengono utilizzati per impostarli in barba all'uso corretto della lingua italiana.
Già il fatto che in premessa si parli di direttore, direttora, direttrice, etc...è l'esemplificazione di uno sterotipo duro da combattere.
Una collega molto più importante di me, recentemente, ha affermato di aver passato il primo mese della sua direzione a rispondere ai colleghi che gli ponevano tutti la domanda: "come la devo chiamare?"
Anche a me è successo più o meno la stessa cosa ma non mi risulta sia mai capitata a nessun collega di sesso maschile.
Che qualcuno mi smentisca se un direttore (uomo) di testata giornalistica si è mai sentito chiedere: "come lo devo chiamare?".
Quanto è importante usare le parole giuste anche quando si parla della violenza contro le donne?
Fondamentale, a partire dagli articoli di cronaca.
Le parole sono armi molto potenti e usando quelle giuste si potrebbe dare un contributo a cambiare la percezione sociale del fenomeno come afferma la collega Nadia Somma, giornalista e fondatrice del Centro antiviolenza associazione linea rosa di Ravenna, che insieme allo scrittore Luca Martini ha pubblicato l'interessante “Le parole giuste. Come la comunicazione può contrastare la violenza maschile contro le donne”.
La percezione collettiva da modificare è quella indirizzata dallo stereotipo della "donna che provoca violenza."
Quante volte si mette l’enfasi sugli articoli di nera sul fatto che le donne uccise volevano lasciare il compagno o si volevano separare.
Come se ciò fosse un naturale innesco di violenza.
Un oltraggio al maschio, qualcosa da non fare, di illegittimo, di grave o da stigmatizzare perché comunque l’uomo resta solo e soffre.
E si dimenticare che molto spesso sono proprio le donne maltrattate che poi finiscono per essere uccise diventando casi di cronaca che lasciano e si separano proprio a causa delle violenze subite.
Le parole giuste potrebbero togliere stigma sociali oltre a una quantità di luoghi comuni oltre a modificare la percezione anche rispetto allo stupro.
Nonostante le lotte femministe la donna che lo subisce "se l'è cercata" perché si permetteva di andare in giro vestita come voleva o di uscire a che ora desiderava.
Bisognerebbe anche smettere quando scriviamo di dare enfasi alle aggressioni che avvengono per strada da parte di sconosciuti, perché sono la minima parte del fenomeno, mentre la maggior parte delle violenze avvengono nelle relazioni di intimità.
C’è bisogno di “dare una rappresentazione più realistica del fenomeno”, suggerisce Nadia Somma. "La cronaca spesso si focalizza sui comportamenti della donna che ha vissuto esperienze di maltrattamento e violenza, perdendo di vista il fatto che “il problema è di chi attua la violenza e il maltrattamento, il problema sta lì, nell’esercizio del potere e del dominio”.
Cambiare il modo di comunicare è tanto più urgente perché le cronache influenzano anche i giudici come ha detto di recente durante una formazione per l’Ordine dei giornalisti del Lazio la giudice Paola Di Nicola, ricorda Somma, sottolineando che il modo in cui si raccontano nelle cronache i fatti di violenza potrebbe avere effetti anche nei tribunali, dove a volte vengono ancora dati giudizi sulla morale delle donne.
Il contesto di cui di solito non si tiene conto nel dare notizie di violenza sulle donne è l’esistenza di disparità e disuguaglianze fra i generi.
Le "strutture di dominio" sono invisibili poiché sono i valori che apprendiamo sin dall’infanzia (le fiabe sono intrise di maschilismo); convinzioni e rappresentazioni di ciò che è maschile e ciò che è femminile che condizionano la nostra visione deformando la percezione della realtà.
Nel linguaggio del non detto l'enfasi che si pone sul fatto che la donna voleva lasciare l’uomo genera l’idea che la donna è traditrice ed è responsabile dell’emotività deviata e dei sentimenti di certi uomini.
Un ruolo assegnato dai mainstream e condiviso anche dalle giornaliste.
Dall’altra parte c’è l’idea che l’uomo incarni la razionalità e l’equilibrio, se lo perde è perché la donna ha fatto qualcosa per fargliela perdere.
La parola da non usare quando viene uccisa una donna è “raptus”.
"Lo disse chiaramente Claudio Mencacci (già presidente della Società italiana di psichiatria) - racconta nel suo libro Nadia Somma - quelli che uccidono o maltrattano sono solo nel 5% dei casi uomini con patologie psichiatriche. Sono dei prepotenti, dei prevaricatori, perché hanno dentro di loro costruito un’idea di mascolinità e di femminilità che fa sì che si sentano autorizzati a esercitare la violenza."
Quindi ogni volta che una donna viene uccisa bisognerebbe evitare di pensare che sia un fulmine a ciel sereno.
Nella stragrande maggioranza dei casi una donna viene uccisa come atto finale di una relazione malsana violenta e maltrattante dove veniva esercitato il dominio e il potere.
È necessario approfondire, dato che quasi sempre nei casi di cronaca si apprende che la donna aveva già denunciato, ma queste cose vengono scritte solo dopo, nei giorni successivi ai delitti e negli articoli di contorno...
Invece è proprio la storia dei maltrattamenti subiti che dovrebbe essere portata al centro dell’attenzione per fornire informazioni utili su cosa le donne potrebbero fare, per esempio per capire se il rapporto che stanno vivendo è malsano.
Le parole spesso sono rafforzate dalle immagini.
Spesso dopo il fatto di cronaca per redarre il profilo della vittima si “saccheggiano i profili social delle donne uccise dove vengono selezionate nella galleria fotografica solo le immagini in cui la donna ha un atteggiamento seduttivo (l'intento forse è di rappresentare la serenità della normalità) mentre l’uomo maltrattante di solito l'abbraccia sorridendo in un quadretto perfetto.
Questo contribuisce secondo gli psicologi a descrivere il contesto di violenza come un contesto di seduzione.
Una delle parole che vanno usate con precisione è “vittima”.
“C’è un dibattito all’interno del movimento delle donne”, spiegala Somma.
“Quando viene uccisa ha senso utilizzarla perché è una situazione definitiva, ma quando subisce stupro o maltrattamento alcune preferiscono donne preferiscono essere definite ‘sopravvissuta’ o ‘che ha vissuto l’esperienza del maltrattamento’. Per altre va bene usare la parola ‘vittima’, collegandola a quella particolare situazione di violenza.
Per scrivere un buon articolo di cronaca di violenza di genere il giornalista e la giornalista dovrebbero riflettere e pesare le parole con grande attenzione, su quali siano gli stereotipi che influenzano loro stessi, magari soffermandosi sulla "Carta dei doveri” e gli obblighi deontologici.
Poi c'è la rete e i social come sempre area franca dove si possono avere ottime iniziative come le campagne innescate dalle donne dello spettacolo che hanno denunciato abusi e contenuti pessimi difficili da arginare e totalmente fuori controllo come i discorsi d’odio.
Infine la televisione e i moltissimi talk di approfondimento in ogni fascia oraria. Che sia mattutina, pomeridiana o serale e quindi con target molti diversificati ciò che colpisce è l'impronta d'intrattenimento dove, anche nelle trasmissioni giornalistiche è un susseguirsi di opinioni (personali) di tuttologi siamo essi: colleghi giornalisti, avvocati, poitici, etc... Mai in studio chi con la violenza di genere ha a che fare ogni giorno. Mai la parola data ad esperti (veri) o ad attivisti dei centri antiviolenza.
Ciò che dicono da fastidio?
Forse non è un caso che fra i direttori delle principali sette reti italiane fra pubbliche e private solo una sia donna?