Donald Trump è il 47° presidente degli Stati Uniti d’America. Eh no, non è l’epilogo di un episodio dei Simpson, dove un imprenditore miliardario dal linguaggio volgare, con una lunga serie di accuse e condanne alle spalle, prende residenza alla Casa Bianca, sede ufficiale del presidente del paese più ricco e potente del mondo. D’altronde era già capitato, nel lontano quanto vicino 2016, quando il tycoon sconfisse la prima candidata a presidente donna, Hilary Clinton, l’ex first lady moglie di Bill Clinton, il presidente democratico che rimase in carica dal 1993 al 2001, e che partecipò, da inquilino della White House, alla firma degli Accordi di Oslo siglati tra Israele e Palestina, immortalati dall’iconico scatto che riprende la stretta di mano tra Yasser Arafat, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, e Yitzhak Rabin, presidente israeliano, con Clinton dietro in posizione di abbraccio, quasi a voler benedire uno dei momenti più importanti della storia del Vicino Oriente.
Momenti che sono invecchiati malissimo se guardiamo alla situazione di oggi in quel territorio. Ma torniamo a noi.
I primi quattro anni di presidenza di Trump sono stati, principalmente sotto due aspetti, un disastro. Il primo è riferito alla sua pessima gestione della pandemia di covid-19, che ha causato migliaia di decessi che si sarebbe potuti evitare con misure più restrittive, come l’obbligo di indossare la mascherina fin da subito, e non rendendola facoltativa; il secondo riguarda l’uscita dagli Accordi di Parigi sul clima, che ha riportato il pianeta indietro di decenni per quanto riguarda gli sforzicollettivi nella lotta contro il riscaldamento globale. Guardando al campo economico, in linea con la tradizione repubblicana, la drastica riduzione fiscale sul reddito delle aziende - dal 35% al 21% - ha sì portato a un aumento dell’occupazione generale e degli acquisti, ma ha anche aumentato il già ampio divario tra ricchi e poveri. Meno entrate nelle casse dello stato equivale a meno servizi per la fascia della popolazione più povera. Di questo i cittadini statunitensi sono consapevoli, ma hanno deciso di premiare lo stesso Trump, con tutta probabilità incantati dalle sue promesse di cessazione dei conflitti in Europa e in Medio Oriente e di ritorno a un’economia forte.
A dir la verità, la presidenza del democratico uscente Joe Biden ha fatto lievitare l’economia statunitense, che è ancora in ottima salute, con la disoccupazione ai minimi storici e salari cresciuti rispetto al 2019, anche se in un contesto di inflazione alle stelle dovuta agli strascichi della pandemia. Non dimentichiamoci poi del piano di investimento infrastrutturale da 1,2 trilioni di dollari da lui varato, che ha reso più efficienti innumerevoli infrastrutture, come la rete stradale e elettrica, migliorando la vita di milioni di americani. Eppure loro, gli americani, hanno preferito voltare le spalle al Partito Democratico, che nel 2020 riuscì a imporsi su quello Repubblicano, sancendo la vittoria di Biden contro Trump. I perché di questa autentica disfatta sono innumerevoli. Innanzitutto la candidata democratica, Kamala Harris, appoggiata da Joe Biden dopo il suo ritiro - a quattro mesi dalle votazioni - non ha avuto il tempo necessario a farsi conoscere più a fondo dal popolo americano, mentre Trump è una celebrità da tutti i punti di vista. E poi bisogna considerare il periodo storico entro cui si sono svolte queste elezioni.
Il mondo è in fiamme come non lo era da tempo. Sotto lapresidenza Biden sono scoppiate due guerre che riguardano da vicino gli Stati Uniti: quella tra Russia e Ucraina e quella tra Israele e Hamas, ai quali, come era prevedibile fin da subito, si sono aggiunti altri protagonisti: Iran, Hezbollah, Huthi, tutti contro il paese ebraico. Per quanto concerne il primo conflitto, l’Ucraina non è un paese NATO - l’alleanza militare tra gran parte dei paesi europei e l’America del Nord, ovvero Stati Uniti e Canada - ma si trova geograficamente in Europa, in Occidente quindi, e un suo allargamento ad altri paesi europei potrebbe provocare la Terza guerra mondiale. Fin da subito la presidenza Biden ha deciso di fornire aiuti militari all’Ucraina, e lo stesso hanno fatto membri della NATO, Italia compresa. E’ grazie a tali e ingenti aiuti che l’esercito ucraino continua a resistere contro quello russo.
Biden ha sì aiutato l’Ucraina del presidente Zelensky, ma senza un piano diplomatico per far cessare la guerra. Aiutare deve avere come finalità la fine del conflitto, sennò diventa una spirale di morte e distruzione che Putin, il presidente russo, potrebbe decidere di far terminare sganciando una o più bombe nucleari. La Harris ha dichiarato che, nel caso fosse stata eletta, avrebbe continuato a dare il massimo sostegno all’Ucraina. Ma di eventuali negoziati neppure l’ombra. Donald Trump, invece, ha affermato che con lui presidente la guerra finirebbe in poche ore. E qui arriviamo al problema del come avrebbe fine, di capitale importanza per comprendere le abissali differenze oggi tra democratici e repubblicani in politica estera.
Oramai è chiaro che Putin non si fermerà fino a quando non avrà ottenuto ciò che desidera: l’annessione alla Russia di parte dell’Ucraina. Trump è consapevole di ciò, perciò Zelensky rischia di non avere più l’appoggio statunitense e, diconseguenza, di doversi mettere al tavolo con Putin per cedere territori del suo paese; uno scenario terribile per il popolo ucraino e per la stabilità dell’Occidente. Se Trump pensa davvero di far cessare la guerra in maniera così veloce, non c’è altra soluzione che far sì che Putin - che governa un paese più stabile e con più risorse - prenda ciò che brama da quasi tre anni. E per farlo potrebbe decidere di non aiutare più l’Ucraina. D’altronde Trump ha sempre sostenuto che gli Stati Uniti stiano spendendo troppo per non fare crollare Kiev. Da ciò si evince che Biden fa gli interessi non soltanto del suo paese, ma anche di quelli che rientrano nella sfera dell’Occidente democratico e liberale, mentre Trump no.
Il ragionamento del tycoon è: “Aiutare fino a quando l’America non ci rimette”. E qui a rimetterci potremmo essere tutti quanti noi, nel caso scoppiasse un conflitto mondiale. Anche per quanto riguarda Israele, Trump ha detto che con lui la guerra terminerebbe in brevissimo tempo. L’incognita rimane, alla stregua del caso dell’Ucraina, il come. A quale prezzo per i palestinesi, martoriati da più di un anno?
Trump è sempre stato un fermo sostenitore di Israele, come del resto Joe Biden, ma, a differenza del secondo - che ha richiamato più volte il governo Netanyahu alla moderazione nelle operazioni militari - il primo potrebbe non interferire nei piani distruttivi di Bibi. La domanda allora sorge spontanea: a conflitto aperto, qual è il piano di Trump per arrivare alla conclusione della guerra?
Perché non ne ha delineato alcuno. Fornire ancora più armi a Netanyahu per mettere a ferro e fuoco l’Iran - alleata di Hamas e nemica giurata di Israele e Stati Uniti - o addirittura partecipare al conflitto da protagonista? Tale scenario porterebbe a una risposta altrettanto forte del paese arabo e dei suoi alleati. Un altro scenario sarebbe riconoscere lo Stato Palestinese, ordinare a Netanyahu di smantellare le colonie in Cisgiordania, e smetterla di dare la caccia ai miliziani di Hamas nella Striscia di Gaza. In caso contrario, gli USA non sosterranno più Israele. Ciò comunque è altamente improbabile, in quanto ci andrebbe a perdere proprio Israele, e Trump non ha alcuna intenzione di tagliare i rapporti con l’unica democrazia del Medio Oriente.
Da come si evince, sul fronte del Medio Oriente, Trump ha utilizzato l’arma della propaganda. Un uomo che fa cessare un conflitto così difficile in poco tempo può essere soltanto opera di un messia, e Trump non ha certo le qualità di un santo. Ma il popolo americano ha bisogno di sentirsi al sicuro e cerca un superuomo che, come per magia, riporti l’ordine - non sono forse nati negli Stati Uniti supereroi come Iron Man e Batman, che con i loro film continuano, a distanza di decenni, a incassare fior di milioni? - Un superuomo che promette crescita, stabilità economica, fine all’immigrazione incontrollata, sempre con lo sguardo rivolto a dio, l’unica entità superiore a lui stesso e dal quale ne dipende il successo personale. Nei suoi comizi Trump, che si considera cristiano, si rivolge spesso alla Bibbia, che considera il libro sacro dell’equilibrio e del buon senso - come concilia la politica pro armi con la parola di Gesù, è una questione di cui non siamo a conoscenza -. Sta di fatto che, come abbiamo visto, è un atteggiamento che funziona.
Un altro grande problema di oggi, che ha penalizzato Kamala Harris, è che la sinistra - americana e europea - viene identificata con movimenti e ideologie fino a qualche anno fa inesistenti, o ininfluenti, come il movimento LGBT e la Cancel culture, lasciando in soffitta i suoi temi reali e nobili, quali una tassazione equa e proporzionale in base al guadagno di ognuno, il potenziamento e il miglioramento dei servizi pubblici, una maggiore attenzione ai diritti dei lavoratori dipendenti, lapromozione di energia non inquinante. Questioni come il non binarismo - la rivendicazione di alcune minoranze a non voler essere identificati né nel genere maschile né in quello femminile -, l’eliminazione da testi del passato di termini che potrebbero risultare offensivi per alcune categorie di individui -come è successo di recente con i romanzi di Agatha Christie -, o la rimozione di statue di personaggi che rimandano a un passato razzista e imperialista, trova l’interesse soltanto di una piccola percentuale di persone. La maggioranza dei cittadini ha a cuore questioni più importanti, come il lavoro, le pensioni, la sicurezza, la sanità.
Per i suoi sostenitori, Donald Trump è l’eroe che può smantellare certe devianze e riportare un ordine biblico, dove esistono maschi e femmine con connotati ben precisi e la Cancel culture deve essere arginata poiché mira a cancellare la storia di un paese - gli Stati Uniti - dal passato glorioso. Kamala Harris non è riuscita nella sua impresa di arginare un uomo abilissimo nel dialogo e nel convincere i suoi cittadini di essere l’unico che può salvare l’America dalla catastrofe. A rimetterci sarà anche l’Europa: da protezionista quale è sempre stato, è molto probabile che Trump tasserà i prodotti europei venduti negli USA - i tanto famigerati dazi -.
Concludiamo con una riflessione: riuscirà una donna a diventare presidente degli Stati Uniti? Non dimentichiamoci che Trump ha vinto contro due donne - Clinton e Harris - ma ha perso contro un uomo - Biden -. Non sarà che il popolo americano nutre dei pregiudizi nei confronti del sesso femminile? O forse il mito del superuomo, rappresentato da Trump, acquista ancora più vigore quando la sfidante è donna? Qualunque sia la risposta, ormai non conta più: Donald Trump è di nuovo presidente, e non sappiamo se sia una buona o una cattiva notizia.