Siamo ben felici di ospitare su Ok! Mugello questa significativa vicenda storica dei due paesi della Romagna toscana" stilata dal Prof. Pier Luigi Farolfi; dal 1775 Portico e San Benedetto sono un comune solo. Le immagini a corredo sono tratte dall’archivio storico fotografico del nostro collaboratore Aldo Giovannini.
Anche la Romagna toscana fu coinvolta nella riforma comunitativa voluta da Pietro Leopoldo che, con motu proprio del 23 settembre 1775,1 ordinò la soppressione di tutti i comunelli dell’Alta Valle del Montone riunendoli sotto un’unica Comunità che comprendeva Portico, Bocconi, San Benedetto in Alpe, Treville e Trebana.
La riforma stabiliva che la Comunità fosse amministrata da una Magistratura composta da un gonfaloniere (poi chiamato sindaco) e da cinque priori. Le persone eleggibili provenivano dai maggiori possidenti del luogo e i loro nomi erano inseriti in due borse distinte, dalle quali erano estratte a sorte.
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Comunque il granduca si premurò di specificare che «i possessori poi con minor somma o quantità di beni a estimo di quella prescritta sopra dovranno essere esclusi dalla predetta borsa dei Priori, ma non per questo tali possessori, benché esclusi da detta borsa saranno esenti dal concorrere, e contribuire con la loro tangente a quelle imposte comunitative, che in futuro potessero venire fatte nella Comunità a forma di ordini». Essi erano eletti nel Consiglio Generale formato da dodici consiglieri oltre i priori e il gonfaloniere, e i nomi erano estratti da una terza borsa «volendo che questa borsa generale serva a dar luogo che ogni grande e piccolo possessore possa rendere il suo voto».
Fu istituita un’imposta unica o «tassa di redenzione» che riuniva tutte le precedenti. In base a questa tassa, la Comunità di Portico doveva versare annualmente alla Camera delle Comunità di Firenze la somma di «scudi cinque, cento tredici di lire sette per scudo» che comprendeva numerose voci, fra cui la tassa dei cavalli e delle bestie da piè tondo, le spese fatte in Firenze per il mantenimento dei malfattori della Provincia di Romagna, la solita tassa del Palio di San Giovanni Battista e, infine, le spese sostenute dalla Pia Casa di S. Dorotea per il mantenimento dei poveri dementi della nuova Comunità di Portico.
1. Liti di campanile
Gli abitanti di San Benedetto e di Treville subirono la riforma come una «indescrivibile sventura» e in una memoria del 26 dicembre 1850 esposero che «le richieste di provvedimento alle più comuni necessità, giammai intendere si vollero, a tal che e senza acqua potabile si trovano, e mancano di levatrice, e non hanno chi loro dia sepoltura, e ciocché più monta mai pensar vollesi alla pubblica istruzione, nel mentre che in Portico, per oltre venticinque anni e per sola deferenza ad un solo soggetto incapace, si spreca un qualche migliaio di scudi per l'abbrutimento di cuori e delle menti dei giovani, che a quella pubblica scuola concorrevano». Inoltre chiedevano la ripetizione delle elezioni lamentando brogli nella «formazione della Comunale Rappresentanza», altrimenti era meglio «ritornare a formare il Municipio loro, indipendente da quello di Portico».2 Sottoscrivevano l’esposto diciotto persone, in testa le firme del parroco di San Benedetto don Andrea Monti e del possidente Antonio Ragazzini.
Sollecitato a dare chiarimenti, il 23 gennaio 1851 il gonfaloniere Domenico Frassineti riunì il consiglio comunale per rispondere alle critiche che gli erano state mosse.
Al reclamo che «astrazione fatta del comunello di Treville, che è un luogo di aperta campagna, i paesani di Castel San Benedetto si lagnano di esser privi di acqua potabile per colpa del municipio, come di non godere del servizio della pubblica ostetrica, e del tumulatore di cadaveri», rispondeva che i sanbenedettini esageravano lamentando la mancanza «di acqua, mentre nella parte superiore del paese esiste una fonte con lavatoio mantenuta a spese comunitative, ed altra ne esce nella parte inferiore in luogo non molto lontano». Mentre a Portico era stata da poco costruita una fonte perché «ben altre ragioni di necessità e di urgenza ne imponevano la esecuzione, essendo noto ad ognuno che la nascita di acque in detto luogo era giunta fino a doversi prendere un pozzo in affitto da un privato».
La levatrice abitava nel capoluogo per prassi corrente, con «l'obbligo» però «di esercitare la sua professione in tutta l'estensione del Comune».
Il tumulatore dei cadaveri, che risiedeva per la stessa ragione a Portico, era addetto solo al cimitero del paese, seguendo la solita pratica in uso nelle altre comunità dove «ad eccezione del capoluogo, e di qualche Terra grossa non sono stipendiati i becchini per ciascuna parrocchia, provvedendo come hanno sempre provveduto i parrochi al necessario servizio a spese delle famiglie dei rispettivi defunti».
Riguardo alla mancanza d'istruzione, dichiarava «non essere impedito ai giovanotti dei luoghi circonvicini di frequentare l'unica scuola stabilita in Portico fino dalla sua istituzione, ciò usarsi molto nelle Comuni della provincia della Romagna Toscana». Certo sarebbe stato meglio crearne una in ogni parrocchia, ma le anguste finanze comunali non lo consentivano.
Quanto poi al cattivo governo delle pubbliche faccende imputato al municipio, «solidali della cosa dovrebbero chiamarsi anche gli abitanti di Castel San Benedetto che ebbero ben spesso rappresentanti nel municipio, ed alcuni di essi figurano nei nomi firmati nella memoria suddetta».
Si elencavano poi i «diversi vantaggi, importanti di non lieve spesa» goduti da San Benedetto:
«1. Istituzione colà di un chirurgo permanente con stipendio di 600 lire aumentato in seguito di 200 lire per l'obbligo di tenere il cavallo, onde esonerare gli abitanti dal condurre la cavalcatura al professore e facilitare ad esso il disimpegno dell'arte salutare.
2. Il Comune si è addossato l'elemosina da retribuirsi al predicatore della Quaresima, dacché il Capitolo di San Lorenzo di Firenze non ha voluto più supplirvi.
3. In considerazione soltanto dell'utilità che poteva derivarne a Castel San Benedetto e campagna circostante il municipio circa sette anni fa accampionò una strada con la direzione da detto luogo a Marradi, con averla poi ridotta in buon stato ed accollata per il mantenimento tuttora vigente».
Contestava la «pretesa irregolarità ed illegalità nella elezione dei consiglieri» la cui correttezza era invece attestata dai processi verbali e dalle altre carte a corredo delle ultime operazioni elettorali.
Infine, in merito «alla formazione di una Comune separata da quella di Portico il consiglio, appoggiandosi all'inconcusso principio che nell'unione sta la forza», concludeva che gli abitanti avrebbero avuto un danno immenso «qualora esso fosse diviso in due frazioni, poiché ambedue verrebbero a comporre piccolissimi municipi, incapaci a sostenere quei benefizi e comodi che gode la popolazione per la presente unità d'interessi».3
E il 2 febbraio, trasmettendo la delibera al prefetto, esprimeva meraviglia e dolore per «l'addebito dell’illegalità delle operazioni elettorali» e perché «gli abitanti di San Benedetto e di Treville ingiustamente si lamentano che nelle ultime elezioni venissero nominate persone del paese di Portico o dei luoghi circostanti, perché quantunque invitati a domicilio, pochi ne intervennero a dare il voto, ne è meraviglia che gli elettori concorsi scegliessero rappresentanti di loro maggiore conoscenza. A controprova poi dell'intrigo, fu eletto alla quasi unanimità il secondo firmatario nella memoria, che è di San Benedetto ed uno dei più facoltosi possidenti, il quale avendo risieduto nell'anno scorso, ha renunziato l'ufficio in forza della azione concessagli dal vegliante regolamento».4
Sulla levatrice poi i sanbenedettini riuscirono a spuntarla perché il 16 agosto 1871 il prefetto autorizzò la delibera del consiglio comunale «colla quale viene nominata all’impiego di levatrice nella condotta di San Benedetto in Alpe la donna Lucia Silvani, nata Padovani, già abilitata a quella professione con diploma della E. Università di Bologna del 15 settembre 1866».5
2. Contrasti per «un braccio di strada» da Mulino al Poggio
Un altro motivo di scontro sorse dopo la costruzione della nuova rotabile che finalmente collegava la Romagna a Firenze, realizzata dall’ingegnere Alessandro Manetti negli anni 1832-1836. Nel 1839 i sanbenedettini chiesero un contributo per fare un raccordo da Mulino al Poggio. I possidenti del luogo, consci della sua utilità, avrebbero concorso proporzionalmente alla spesa. Ma prima che quest'opera vedesse la luce sarebbero trascorsi anni di liti che, senza dubbio, non contribuirono a rasserenare gli animi. Il motivo del contendere era stabilire se la strada fosse da classificare o meno obbligatoria, perché nell'uno e nell'altro caso variava molto la ripartizione delle spese tra i soggetti coinvolti.
L’annosa vicenda si sviluppò con documenti prodotti dai fronti contrapposti: lo scritto dell'avvocato Giuseppe Poggi del 18 giugno 1874,6 a cui i consiglieri di Portico replicarono con una memoria a stampa del 21 dicembre 1874:7 ambedue corpose relazioni a sostegno delle proprie ragioni.
Finché il 20 aprile 1875 l'ingegnere capo dell'ufficio tecnico provinciale di Firenze risolse la disputa riconoscendo che la strada non solo non era «un’indiscretezza né un lusso», ma «un’utilità, una decisa necessità» che soddisfaceva tutte le condizioni di legge che la classificavano obbligatoria.8
L'accollatario dei lavori fu Ottaviano Gori che se li aggiudicò il 9 agosto 1878 per un importo di 12.630,51 lire. Il 12 giugno dell'anno seguente l'ing. Alcide Boschi, nella sua qualità di progettista e direttore dei lavori, verificò la congruità della costruzione di quella strada fra Molino e Poggio «lunga 1,08 chilometri ed i cui punti estremi offrono un dislivello di 91 m e 12 cm».9
L'11 marzo 1880 la commissione comunale, con a capo l’ing. Boschi e il collaudatore ing. Pistoi, certificò che i lavori erano stati «regolarmente eseguiti a forma del progetto».10 Finalmente terminò un contenzioso durato quarant'anni fra le due comunità, a quel tempo non più del Granducato, ma del Regno d'Italia.
Ricordiamo che Alcide Boschi (1839-1892) fu l’ingegnere che progettò e realizzò anche la strada tosco-romagnola dei Mandrioli da Soci a Bagno di Romagna tra il 1870 e il 1882. Un’autorità indiscussa in materia con una profonda conoscenza del sistema viario della Romagna toscana.
3. Un sindaco si dimette
In quegli anni le finanze comunali erano sempre in sofferenza e necessitavano di imprestiti per fare fronte alle continue esigenze economiche.
Il 13 luglio 1866 il consiglio si riunì per discutere alcuni provvedimenti finanziari. Otto i presenti compreso il sindaco Carlo Traversari Violani. Assenti, per quanto invitati, altri sei consiglieri fra cui l’avvocato Giuseppe Poggi e Antonio Ragazzini. Un numero sufficiente per trattare, ma le assenze erano indicative della frattura mai ricomposta fra i due paesi. Si richiedeva un prestito per realizzare dei lavori pubblici che non era più possibile rinviare.
Uno era la «costruzione di una fonte nel castello di Bocconi riconosciuta indispensabile, essendo gli abitanti di questo affatto privi di acqua potabile».
Come si vede c’era un problema complessivo sulla gestione dell’acqua pubblica e il Comune aveva un contenzioso aperto anche con Benedetto Frassineti di Bocconi, proprietario dei terreni a Pian di Rupino dove erano le due sorgenti da cui si approvvigionava il paese, che non li voleva vendere perché gli servivano per abbeverare il bestiame «minuto e grosso» dei suoi poderi. Anche questa controversia si trascinò per diversi anni con pareri, ricorsi, perizie e controperizie, finché nel 1867 fu autorizzato l’esproprio perché la costruzione della condotta d’acqua era un’importante opera di utilità pubblica fondamentale per «dotare una popolazione, riunita in borgata, siccome lo è oggi Bocconi, di uno dei primi elementi necessari alla vita, quando in specie ne sia sprovvista come si verifica nella borgata in discorso».11
E a Portico «il lavoro del ponte della Guardarella era reclamato dalla minacciante rovina e la costruzione della Fabbrica comunale per quanto porti una non lieve spesa sarà però a molto vantaggio per le scuole».
Per far fronte a queste spese si sarebbe dovuta alzare l’imposizione fondiaria, un «aumento gravissimo» che «oltre a essere insopportabile per i contribuenti avrebbe portato un sensibilissimo malcontento».
Fu perciò deciso di chiedere un prestito di 10.000 lire alla Cassa di Risparmio di Firenze «a titolo di menomare l'attuale imbarazzo amministrativo comunale»12 che però non fu concesso per la grave situazione finanziaria del Comune.
Il rifiuto convinse Carlo Traversari Violani a dimettersi perché «la gravità della situazione delle amministrazioni comunali […] è la vera causa che occasiona la domanda di dimissione di molti sindaci di quel Circondario; situazione creata dalla mancata esazione delle sovrimposte sui tributi diretti […] motivata anche dalla mancanza di rimborsi dallo Stato preveduti in entrata nei bilanci comunali e non potuti finora esigere». Il sottoprefetto tentò di dissuaderlo, ma inutilmente perché egli si vedeva nell’impossibilità di onorare i propri impegni e non voleva «perciò continuare in un carica che a suo dire non farebbe che compromettere la sua malferma salute ed i privati suoi interessi».13
4. Doppio colpo di scena
Nel 1874 i rapporti di forza comunali cambiarono a favore di San Benedetto e l’8 maggio il consiglio si riunì con l’obiettivo di spostare le riunioni da Portico a San Benedetto.
Presenti il sindaco Federigo Zannetti e i consiglieri Domenico Ragazzini, Francesco Neri, Pietro Zambelli, Carlo Zambelli, David Zambelli, Giuseppe Palli, Antonio Michelacci, e Angiolo Meucci; assenti, per quanto invitati, Giuseppe Zambelli e gli avvocati Giuseppe Poggi e Alessandro Dini.
Il consigliere Domenico Ragazzini propose «che le adunanze del consiglio comunale, anziché a Portico, ove è la sede degli uffizi, si possano provvisoriamente tenere in altra località da determinarsi più prossima alla frazione di San Benedetto, a cui appartengono la maggior parte dei consiglieri».
Il consigliere Pietro Zambelli osservò che il consiglio al momento era composto di dodici consiglieri, nove dei quali dimoravano a San Benedetto, uno a Bocconi e gli altri due avevano la residenza a Firenze, per cui riusciva «soverchiamente incomodo alla maggioranza il tenere le adunanze in Portico, che dista dalla frazione di San Benedetto undici chilometri»; perciò proponeva «che senza spesa per l’amministrazione si può riparare a siffatto inconveniente, e meglio provvedere al buon andamento del servizio, convocando le adunanze del consiglio nel luogo denominato le Balducce, ove ha pure la sua abitazione il sindaco attuale signor Federigo Zannetti o in altra casa di San Benedetto da stabilirsi sempre però nel territorio comunale».
Unico bastian contrario fu Francesco Neri che obiettò che «sarebbe stato meglio presentare una simile domanda» dopo che si fosse conosciuto l’esito delle elezioni di primavera.
Il sindaco, pur dubitando del successo dell’operazione, si impegnò a «mettere a disposizione del consiglio presso la casa del suo palazzo alle Balducce per lo scopo di tenervi le adunanze municipali» e di inoltrare la domanda al prefetto. Posta ai voti per alzata e seduta la proposta fu approvata da tutti, ad eccezione del Neri che rimase seduto rigettandola.14 Ma la prefettura la respinse perché «per le massime stabilite in proposito col parere del Consiglio di Stato, le rappresentanze municipali non possono adunarsi fuori del luogo della residenza legale del Comune».15
Il consiglio comunale, forte della nuova maggioranza tentò anche un altro colpaccio e l’11 ottobre 1875 deliberò di «cambiare l’attuale denominazione di quel Comune intitolandolo Comune di Portico e San Benedetto». Ma il prefetto obiettò che non era «giustificata da verun reale motivo la presa determinazione, in quanto sebbene sia vero che San Benedetto costituisce una frazione importante del Comune, pure l’aggiungere la sua denominazione a quella del capoluogo, che è un paese di assai maggiore importanza e popolazione, porterebbe confusione piuttosto che evitare gli inconvenienti lamentati dal Municipio. Infatti a Portico e non a San Benedetto vi è la sede municipale, e colà esiste l’ufficio postale di cui è priva la frazione di San Benedetto e, per conseguenza, il mantenere a quel Comune la denominazione di Portico di Romagna non solo non può portare alcun equivoco, ma anzi giovare ed evitare quelli, coi quali potrebbe dar luogo l’aggiungervi la denominazione di San Benedetto».16
Il 29 marzo 1876 il ministero dell’Interno rigettò la richiesta in base alla «massima di non promuovere l’autorizzazione sovrana per cambiamenti nella denominazione dei Comuni se non quando siano necessari per distinguerli da altri omonimi. Questo estremo non si verifica riguardo al Comune di Portico di Romagna in codesta Provincia, essendo sufficientemente distinto dall’altro che ha lo stesso nome nella Provincia di Caserta dall’appellativo di Romagna, tanto più che questo nome lo hanno ben undici altri Comuni del Regno».17
5. Il Comune cambia nome
Ma col tempo e con la paglia maturano le nespole, recita un vecchio adagio, e cambiarono anche le autorità fiorentine e le loro convinzioni, per cui il consiglio comunale in seduta del 18 maggio 1883 deliberò nuovamente la variazione di denominazione perché «reclamata dal giusto desiderio manifestato da molto tempo dagli abitanti della frazione di San Benedetto».18
Questa volta per il prefetto nulla ostava alla richiesta di variazione del nome in modo che fosse «sempre distinto dall’altro Comune “Portico di Caserta”. La ragione che si adduce per questo cambiamento è quella di rammentare nell’appellativo una grossa frazione di quel Comune. Io non ho motivi da dedurre per proporre il diniego alla enunciata domanda».19 Ma essendo la deliberazione presa in seconda convocazione e con un esiguo numero di consiglieri presenti il ministero eccepì che, sebbene la legge non lo prescrivesse, sarebbe stato più conveniente deliberare su tale importante materia «con un numero di consiglieri superiore alla metà di quelli assegnati a Portico».20
Il 28 settembre il consiglio comunale si riunì. Presenti il sindaco Carlo Zambelli e i consiglieri Domenico Ragazzini, Antonio Michelacci, Pietro Valtancoli, Angelo Meucci, Antonio Bonaccorsi, Luigi Bonaccorsi, don Paolo Serri, Pietro Grandi e Antonio Brenti. Assenti gli altri.
Preso atto del numero legale, il sindaco ripropose «che il Comune invece di denominarsi “Comune di Portico di Romagna”» portasse la denominazione di “Comune di Portico e San Benedetto”».
E nell’atto conclusivo della deliberazione si leggeva che «a suffragare la giustezza e l’opportunità di una simile denominazione» [il sindaco] «porta innanzi le ragioni che il Comune essendosi ripartito in frazioni per la nomina rispettiva dei rappresentanti municipali, e la frazione di San Benedetto portando egual numero di rappresentanti che quella del capoluogo del Comune, torni conforme a giustizia ed equità che venga equiparata nella forma, siccome richiede infatti l’importanza sua, non secondaria, sia in riguardo del numero della popolazione, sia in riguardo ai rapporti commerciali e industriali del Comune».
Questa volta il consiglio approvò all’unanimità la proposta incaricando il sindaco di fare le ulteriori pratiche perché «venga concesso il cambiamento della denominazione del Comune di Portico di Romagna in quello di Portico e San Benedetto».21
Finalmente il 30 maggio 1884, regnante Umberto I, fu emanato il Regio Decreto, articolo unico, che stabiliva che «il Comune di Portico di Romagna in provincia di Firenze cambierà l’attuale sua denominazione in quella di Portico e San Benedetto cominciando dal primo luglio 1884».22
Il nome rimase invariato anche quando nel 1923 i comuni del circondario di Rocca San Casciano furono aggregati alla provincia di Forlì.
Foto di Portico di Romagna e San Benedetto in Alpe (Archivio A.Giovannini)