
"Abbiamo vinto! Non contro ogni previsione, perché sulla vittoria ci contavamo; ma contro una campagna per il SI sostenuta da un imponente apparato mediatico che comprendeva tutti i canali della TV e della radio pubblica (nonché molte TV e radio private locali) e tutti i principali quotidiani, italiani e stranieri". Inizia così la lunga riflessione che riceviamo da Augusto Cacopardo, professore del Giotto Ulivi di Borgo e portavoce del Comitato Provinciale per il No. Eccone il resto:
Un coro che amplificava all’infinito il costante abuso di posizione dominante da parte del Presidente del Consiglio che faceva propaganda per il SI dovunque andasse e per qualunque motivo si muovesse. Dalla nostra parte solo due giornali di nicchia, il Fatto Quotidiano e Il Manifesto. Davide contro Golìa. Eppure abbiamo vinto.
Avevamo appena chiuso il seggio di Fiesole dove ero rappresentante di lista – in cui il SI era al 65% contro uno scarso 35% del NO – che mi raggiungono le prime telefonate degli attivisti del Comitato fiorentino per il NO: a livello nazionale sul 10% dei seggi scrutinati il NO è al 60%; poco dopo: Renzi sta per dimettersi. Riferisco agli scrutatori e ai rappresentanti di lista del PD che indugiano davanti all’ingresso. Restano di stucco e non vogliono crederci. Alle dimissioni di Renzi non ci credo nemmeno io. Ma poco dopo, correndo in macchina verso la Casa del popolo dove per nove mesi ci siamo riuniti per portare avanti la nostra campagna, sento alla radio la conferma. Renzi ha già dato l’annuncio della sconfitta e si appresta a parlare alla stampa. Arrivo al circolo e trovo tutti già in festa, bottiglie stappate e troupe televisive che stanno intervistando Francesco Baicchi, il coordinatore regionale del nostro comitato. Baci, abbracci e brindisi. E poi tutti a piazza della Signoria a festeggiare, a celebrare la nostra sofferta vittoria, proprio lì dove appena due giorni prima era stato montato il mega-palco da rock star di Renzi per l’ultima arringa alle truppe del SI.
Una vittoria entusiasmante, ma sofferta per l’immensa mole di lavoro (gratuito ovviamente) costata a migliaia e migliaia di persone in tutta Italia, che hanno prima raccolto le firme sotto il solleone estivo, e poi volantinato fra le intemperie autunnali; che hanno organizzato, manifestato, scritto sui giornali e sui social, dibattuto in contraddittori nelle università, nelle scuole e fin nei più remoti circoli ARCI della profonda provincia. Sofferta ma entusiasmante, perché lanciata su un’onda di impegno civile che ha visto la gente – la gente comune non solo una élite di attivisti – prendere sempre più coscienza dell’importanza decisiva della scelta che tutti eravamo chiamati a compiere col referendum.
Mentre ancora si festeggia, una frase lapidaria mi si forma nella mente: ORA BASTA. Ora basta con le “grandi riforme” della Costituzione, basta con “le riforme dell’architettura costituzionale” con “i ripensamenti dell’assetto dei pubblici poteri”, come si autodefiniva la proposta renziana. Il popolo sovrano per ben due volte, e a grande maggioranza, ha detto che vuole la Costituzione di Dossetti, Calamandrei e Terracini, non quella di Berlusconi & C. o di Renzi e Boschi. L’idea della “grande riforma”, che serpeggiava da tempo in alcuni ambienti, fu avanzata per la prima volta in forma ufficiale, da Bettino Craxi negli anni ’80. Fu quello il decennio in cui si arrestò il processo di attuazione della Costituzione che aveva portato negli anni ’70 all’approvazione di una serie di leggi che facevano penetrare le istanze democratiche nel tessuto sociale: lo Statuto dei lavoratori, i decreti delegati sulla scuola, la riforma del diritto di famiglia, il divorzio, la riforma sanitaria, la legge Basaglia sugli ospedali psichiatrici. Ma quel processo fu arrestato e, a partire dagli anni ’80, si cominciò a parlare di modificare la Costituzione piuttosto che di attuarla. Iniziò allora il lungo tragitto che ci ha portato nelle secche in cui si trova il paese adesso, con l’esercizio dei diritti sociali sempre più a rischio per la contrazione della sanità pubblica e la privatizzazione di molti servizi essenziali, e i diritti dei lavoratori sempre più compressi dopo l’abolizione della contingenza, l’abbandono della concertazione, fino al superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori con il Jobs Act. Risultato: un generale impoverimento della popolazione che ha portato un italiano su quattro sotto la soglia della povertà, come dicono i dati proprio oggi resi pubblici dall’ISTAT. Per il progetto politico che ha ispirato questo cammino la Costituzione del ’48 costituiva un ostacolo. Per questo andava cambiata. Se non tutta e subito, almeno in parte; il resto sarebbe venuto in seguito.
E’ a questa deriva essenzialmente antidemocratica, incurante del principio dell’uguaglianza sostanziale affermato dall’articolo 3 della Costituzione e quindi insofferente nei confonti dello Stato sociale, che si è opposto il NO di sinistra. Tanti altri, si sa – e in primis il M5S che peraltro ha al suo interno anche un’anima di sinistra – hanno certamente contribuito alla vittoria del NO. Ma senza l’ANPI, l’ARCI, la CGIL, i costituzionalisti gufi, la minoranza dem e gli altri piccoli partiti della sinistra – quel NO non avrebbe mai avuto il prestigio, la coerenza e l’autorevolezza necessarie ad assicurargli il sostegno della maggioranza (e così schiacciante) dell’elettorato.
E allora? – si chiederanno alcuni – la Costituzione del ’48 deve rimanere intoccabile? Dopo settant’anni non avrebbe proprio bisogno di modifiche?
In primo luogo bisogna comprendere che le costituzioni sono fatte per durare. Le regole del gioco non si cambiano ogni volta che cambia il vento: la Costituzione degli USA, la prima del mondo, è del 1787, ed ha subito pochissime modifiche. In secondo luogo la nostra non è rimasta immutata. E’ stata modificata ben 16 volte, ma in quasi tutti i casi con un consenso così ampio da assicurare in parlamento la maggioranza dei due terzi, che esclude la possibilità del referendum. Solo nel 2001 si è dato inizio – da parte ahimè del centro-sinistra – all’infausta pratica delle modifiche approvate a maggioranza, con la riforma del Titolo V, che riguarda i rapporti Stato/Regioni. Una decisione che ha dato il destro a Berlusconi per tentare la sua riforma, bocciata dal referendum del 2006, e infine a Renzi per fare a sua volta lo stesso tentativo, anch’esso respinto dal popolo sovrano.
L’insegnamento da trarre da tutto ciò è in primo luogo che le riforme costituzionali non vanno fatte a maggioranza, meno che mai se si tratta poi di una maggioranza drogata da una legge anticostituzionale, come quella renziana gonfiata dal “porcellum”. Perché, come ci ha dimostrato l’atmosfera della campagna referendaria appena conclusa, una riforma fatta a maggioranza divide il paese, mentre sulla legge fondamentale che detta le regole del gioco è necessario un consenso quanto più possibile ampio, come avvenne nell’Assemblea Costituente. Per questo sarebbe opportuna una modifica dell’articolo 138 nel senso di rendere obbligatoria la maggioranza dei due terzi per le leggi di revisione: ecco una prima modifica che ci sentiremmo di proporre. E non è la sola. Per rispondere alla domanda di cui sopra diremo che in realtà riteniamo che ci siano diversi punti della Costituzione del ’48 che richiederebbero un intervento: ad esempio, andrebbe abbassato il quorum dei referendum abrogativi (senza aumentare il numero delle firme, come nella Renzi/Boschi); andrebbe introdotta la tutela dell’ambiente, e non soltanto del paesaggio; sarebbe necessaria una norma costituzionale che garantisse l’indipendenza delle reti televisive dal governo e che impedisse il conflitto d’interessi di berlusconiana memoria; ancora, dove all’art. 3 si afferma l’eguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione ecc., si dovrebbe aggiungere “di orientamento sessuale”, come già prevede la Carta dei diritti europea. Si tratta di esigenze che non potevano essere presenti ai padri costituenti e che richiederebbero un adeguamento della Carta alla realtà sociale in trasformazione. E’ su questi punti che la Carta mostra segni di invecchiamento, ma nessuno di essi era toccato dalla Renzi/Boschi. Si potrebbe poi pensare anche ad altri interventi. Sarebbe da eliminare, ad esempio, la nefasta norma introdotta nell’art. 81 al tempo di Monti che, vietando l’indebitamento per finanziare la spesa pubblica taglia le gambe allo Stato sociale.
Si potrebbe anche intervenire, volendo, sul bicameralismo perfetto – anche se non ci sembra una priorità dato che il numero di leggi approvato dal nostro Parlamento non è inferiore a quello degli altri organi legislativi europei – purchè si mantenga l’elezione diretta delle due camere e non si immaginino senatori doppiolavoristi. In breve, le modifiche alla Costituzione devono riguardare singoli punti sui quali si possa coagulare un ampio consenso, in modo da consentire anche, all’elettorato, di esprimersi senza forzature e con coscienza di causa in un eventuale referendum: cosa possibile se il voto riguarda tre o quattro articoli, ma impensabile se ne riguarda 47.
La campagna referendaria ha diviso il paese. E’ stato detto che chiunque fosse stato il vincitore la parte perdente si sarebbe sentita in qualche modo ingiustamente colpita. Che il paese si sia diviso è vero, ma la vittoria del NO in realtà e la vittoria di tutti, perché la Costituzione che abbiamo difeso tutela davvero tutti, e in particolare le minoranze e le opposizioni, e quindi anche gli elettori che oggi si ritengono perdenti.
Augusto Cacopardo Portavoce del Comitato provinciale per il NO
Il Referendum? Occasione mancata. La parola al fronte del Sì con Fiammetta Capirossi ~ OK!Mugello
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